
Il primo italiano a giocare nella patria del football non fu un attaccante, ma un centrocampista instancabile e anche portiere. Proprio così. Fu un calciatore con i baffi, gli occhi profondi e l’anima nomade. Si chiamava Attilio Fresia. Nacque a Torino, e finì al Reading, nei sobborghi di Londra, quando l’Europa era ancora in bianco e nero.

Là dove l’erba si piega al vento e i cieli d’Inghilterra sembrano non schiarirsi mai, negli anni Dieci del Novecento apparve un uomo con la voce roca e l’accento piemontese, che parlava poco e correva molto. Attilio Fresia aveva il volto scavato di chi già conosceva la fatica. Il suo destino non era restare, ma partire. Sempre. Per una partita, per un’idea, per l’incanto di una maglia da difendere.

Torinese di nascita, classe 1891, si affacciò al calcio da ragazzo. Portiere da piccolo, pare che dicesse: “Mi piace volare, anche se cado” Giocò nel Piemonte e nel Torino. Poi l’Andrea Doria e gli occhi puntati della corazzata Genoa, allora la più blasonata squadra italiana. I dirigenti rossoblù gli proposero il contratto di 400 lire, la Federazione venne a saperlo e lo squalificò in quanto allora non era contemplato il professionismo.
Gli inglesi del Reading, venuti in Italia per una tournée, avevano giocato un’amichevole proprio contro il Genoa e vennero attratti da Fresia.

Il mondo era sull’orlo della guerra, eppure i palloni continuavano a rotolare. Fresia, attratto forse dal fascino della patria del football, partì per l’Inghilterra. Non c’erano procuratori, né voli low-cost. Solo un treno, una nave e un sogno da rincorrere. Firmò per il Reading, ingaggio di 17 sterline, ggrazie anche alla mediazione dell’allenatore del Genoa William Garbutt, che in passato aveva giocato proprio nel Reading. Era il primo italiano a vestire la maglia di un club inglese. Non lo sapeva, né gli interessava.

Era il 1913, anno in cui collezionò anche la sua unica presenza in Nazionale, contro il Belgio. Fu però una meteora, il suo inglese era zoppicante. Le cronache dell’epoca, ormai sbiadite, lo descrissero come “misterioso” per poi bocciarlo senza appello: “Fresia è soltanto utile sui terreni duri, e quasi inutile su quelli morbidi”. Come dire: qui in Inghilterra, dove praticamente ogni giorno cade almeno una pioggerellina, Fresia non va bene.


Ritornò in Italia: Modena, Livorno e ancora Modena, in mezzo la Grande Guerra e poi iniziò a fare l’allenatore.
Poi arrivò la guerra. Come tutti, anche lui tornò. Prima in Italia, poi altrove. Smise di giocare, iniziò ad allenare. Nel 1920 gli giunse la chiamata dal Brasile del Palestra Italia, il club degli italiani, lui accettò anche se era già minato dalla tubercolosi. Fece in tempo a guidare la squadra nella gara vinta contro il Paulistano, che gli fece vincere il Campionato Paulista.
Rientrato in Italia, ritornò a Modena insieme alla moglie Nerina Secchi, ma le condizioni di salute peggiorarono. La morte lo colse prematuramente nel 1922, a soli 32 anni.
Fresia non diventò un mito. Il suo nome non è inciso negli stadi (a Modena un referendum gli preferì Alberto Braglia), né sulle targhe commemorative. Eppure è stato un ponte. Un archetipo. Il primo azzurro in terra britannica, un pioniere silenzioso, senza copertine né clamori.
Di lui restano poche immagini, qualche tabella statistica, e la memoria di un gesto: quello di aver avuto il coraggio di partire, quando nessuno lo faceva. Di aver creduto che il calcio potesse essere anche un viaggio, non solo una partita.
Attilio Fresia è il tipo di storia che il tempo rischia di dimenticare. Ma basta una fotografia sbiadita, un numero di maglia in un registro d’altri tempi, per ricordare che anche le cronache minori hanno il respiro dell’epopea. E che il primo italiano a sfidare il vento di Albion fu Fresia. Con i baffi, e con l’anima leggera.
Mario Bocchio