
Una squadra di provincia che sembrava uscita da un romanzo, con un presidente filosofo della terra e un direttore sportivo con l’occhio buono e il cuore grande. La Cremonese di Luzzara e Favalli è stata, prima di tutto, una lezione d’umanità.
Nel cuore della Bassa padana, quando l’umidità sale dalla terra e la nebbia avvolge il Torrazzo come un abbraccio silenzioso, c’è stato un tempo in cui il calcio si mescolava col pane, col vino e con le facce vere. Era il tempo della Cremonese di Domenico Luzzara, ma anche di un uomo che gli stava sempre accanto, più ombra che riflettore: Erminio Favalli, il direttore sportivo che sapeva riconoscere un calciatore dal modo in cui camminava, più che dai numeri.

Lo stadio Giovanni Zini, nei primi anni ’80, era una specie di teatro popolare del calcio. I bambini con la sciarpa grigiorossa stretta al collo, le famiglie con il thermos del tè caldo, e poi Luzzara, col suo cappotto sdrucito e l’aria di chi conosce il tempo e il rispetto. Si sedeva in tribuna, a volte anche in campo, senza fare rumore. Ma sotto quel silenzio, c’era un pensiero forte: fare calcio senza tradire sé stessi.
Luzzara non voleva dirigenti rampanti, ma uomini. E in Erminio Favalli, ex calciatore elegante e introverso, trovò il compagno ideale di quella missione. I due si somigliavano: sobri, profondi, innamorati del gioco. Nessuno dei due alzava mai la voce. Nessuno dei due parlava troppo. Ma quando Luzzara diceva “Vediamo che ne pensa Erminio”, tutti sapevano che si stava decidendo qualcosa di importante.
La leggenda – vera o non vera – racconta che una volta, dopo una vittoria a sorpresa contro il Verona di Bagnoli, Luzzara entrò nello spogliatoio con un canestro di pane e salame cremonese. Niente champagne, niente discorsi motivazionali.

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“Questo è il premio”, avrebbe detto sorridendo. E Favalli, al suo fianco, avrebbe aggiunto: “La partita l’avete vinta voi. Il salame l’ha fatto mio cugino. Entrambi meritano di essere gustati”.
Era così, quella Cremonese. Un posto dove il calcio non era separato dalla vita, ma ne faceva parte. Un luogo in cui la cultura contadina incontrava l’eleganza tecnica. Un luogo dove si diceva ancora “buongiorno” al custode e “grazie” al magazziniere.

Erminio Favalli era diverso dai direttori sportivi d’assalto. Lui non cercava il colpo di mercato. Cercava l’uomo giusto. Guardava negli occhi i giocatori. Capiva se erano pronti per Cremona, se avrebbero rispettato lo Zini, il bar Sport, la nebbia e i silenzi del lunedì. Fu lui a lanciare in grigiorosso Gianluca Vialli, che a 16 anni già aveva negli occhi la fame dei grandi. E poi Attilio Lombardo, esterno dal passo rude e cuore tenero, e prima ancora Alviero Chiorri, artista del pallone e degli eccessi, che trovò in Favalli un padre silenzioso.
“Erminio non parlava mai a caso”, dirà anni dopo Vialli. “Quando mi disse: Tu vai lontano, ma ricordati da dove sei partito, io capii tutto. Cremona non era una città, era un modo di essere”.
I mister erano scelti con la stessa cura. Non servivano gli urlatori. Servivano i maestri. E allora ecco Emiliano Mondonico, con la sua panchina sgangherata e il cuore in mano. Uno che mangiava con i magazzinieri e parlava ai ragazzi come un padre contadino.
E poi Gigi Simoni, il signore d’altri tempi, che con Favalli condivideva la mitezza e con Luzzara il gusto per la misura. Fu lui a guidare la squadra nella notte magica di Wembley, vincendo la Coppa Anglo-Italiana nel 1993, battendo il Derby County in uno stadio gremito.

Mentre tutti festeggiavano, Favalli restava in disparte. “È solo un trofeo”, disse. “La cosa bella è che abbiamo portato Cremona in Inghilterra, e l’hanno capito”.
Per Luzzara e Favalli la squadra era una famiglia. Non un’azienda. Ogni lunedì si faceva il punto non solo sugli infortuni o sui punti in classifica, ma su chi aveva litigato con la moglie, chi aveva problemi coi figli, chi aveva bisogno di una parola.

C’era uno spogliatoio grande come un salone, con le panche di legno e l’odore misto di erba tagliata e salame. C’era il caffè del dottore, la battuta del massaggiatore, la voce di Favalli che diceva: “Oggi niente campo, oggi si ascolta”.
Quando Luzzara se ne andò nel 2003, la città si fermò per davvero. E qualche anno dopo, anche Erminio Favalli lo seguì, troppo presto, troppo silenziosamente, come era vissuto. Ma chi ha vissuto quella Cremonese sa che nulla si è perso. Perché quella squadra non è finita, si è trasformata in memoria.
La Cremonese oggi gioca ancora, tra alti e bassi, promozioni e retrocessioni. Ma il suo spirito vero – quello fatto di pane, salame e dignità – abita ancora lì. Nei corridoi dello Zini. Nei ricordi della gente. Nei sogni dei bambini che, quando segnano un gol, alzano il pugno al cielo e pensano: “L’avrebbe apprezzato anche Favalli”.
“Nel calcio, come nella vita, prima si mangia insieme. Poi si combatte insieme.” Aveva perfettamente ragione Erminio Favalli, direttore sportivo, uomo giusto.
Mario Bocchio