Vicenza, 1978: il miracolo biancorosso
Giu 1, 2025

C’è un tempo in cui il calcio sa farsi leggenda, e accade spesso nei luoghi dove nessuno guarda. Come a Vicenza, nell’inverno del 1977, quando una squadra di provincia, figlia di una fabbrica e del lavoro operaio, cominciò a scalare la classifica di Serie A con la tranquilla ostinazione dei sognatori.

Al “Romeo Menti” faceva freddo, ma sugli spalti si cantava. Gli operai della Lanerossi, le famiglie coi panini, gli studenti coi tamburi. Nessuno lo diceva ad alta voce, ma tutti cominciavano a sperarci. Perché in campo c’era una squadra vera, un gruppo di ragazzi con le idee chiare e le gambe leggere.

Il difensore biancorosso Giuseppe Lelj in elevazione nella gara interna contro la Juventus del 22 gennaio 1978 (0-0), che fece segnare il record di spettatori allo stadio “Romeo Menti “con 31.023 presenze.

Il più leggero di tutti era Paolo Rossi. Magro come un fuscello, occhi furbi, sorriso da monello. “Pablito”, lo avrebbero chiamato anni dopo, ma a Vicenza era semplicemente Paolo. Correva come se non toccasse terra. I gol li faceva con naturalezza, come un bambino che disegna senza pensare, e in quella stagione ne avrebbe segnati 24, capocannoniere assoluto della Serie A.

Giovan Battista Fabbri

Dietro di lui, una squadra solida e generosa. Ernesto Galli tra i pali, silenzioso e sicuro. Giorgio Carrera a guidare la difesa con eleganza. E poi Franco Cerilli, l’estroso, capace di saltare l’uomo e inventare. Sulla fascia, i polmoni di Giancarlo Salvi.

Paolo Rossi si laureò miglior marcatore della Serie A 1977-’78, bissando il titolo cannonieri vinto la stagione precedente in Serie B, e diventando così il primo calciatore a conseguire tale “doppietta”

In panchina, con la sciarpa al collo e lo sguardo da professore, sedeva Giovan Battista Fabbri. Lo chiamavano GB. Era un uomo tranquillo, che parlava poco ma sapeva tutto. Ogni allenamento era una lezione. Non gridava: suggeriva. Non imponeva: mostrava. Aveva costruito quella squadra pezzo per pezzo, come un artigiano.

Franco Cerilli

“Ragazzi, non dobbiamo essere i migliori del mondo. Basta essere noi. Ogni domenica, essere noi”.

Questa era la sua filosofia. E loro, in campo, lo seguivano come si segue un padre. Il Lanerossi giocava a memoria, compatto, veloce, divertente. Vinse a Torino, mise in crisi la Juventus, stupì a San Siro, piegò la Roma. Ogni domenica, una sorpresa. Ogni lunedì, i giornali impazzivano.

La città si riempiva di bandiere, i bambini facevano a gara a chi imitava meglio i gol di Rossi nel cortile. Gli autobus rallentavano nei pressi del “Menti” il giorno della partita. I vecchi dicevano: “Mai vista una cosa così. Nemmeno ai tempi di Vitali”.

Arrivò aprile e il Vicenza era secondo. Dietro solo al Milan, davanti a tutte le grandi. Era l’inizio di qualcosa? O la fine di un sogno?

Nessuno lo sapeva. Ma nessuno, nemmeno per un attimo, ebbe rimpianti.

Il 7 maggio 1978, quando finì il campionato, al fischio finale il Romeo Menti esplose in un boato. Sembrava avessero vinto lo scudetto. E in fondo, lo avevano vinto davvero: quello della dignità, della bellezza, della speranza.

Paolo Rossi si fermò al centro del campo, le mani sui fianchi, il fiato corto e gli occhi lucidi. Si guardò intorno e capì che nulla sarebbe mai stato più bello di quella stagione.

Il Lanerossi Vicenza, la piccola squadra di provincia, aveva scalato l’Olimpo.

E chi c’era, non lo ha mai dimenticato

Mario Bocchio

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