Risse, pistole e scudetto: l’estate insanguinata di Genoa-Bologna
Mag 24, 2025

Agosto 1925. Il sole sorge pigro su Milano, eppure un pallone rotola già all’alba. Sugli spalti: nessuno. Solo silenzio, autorità in bombetta, qualche gendarme e i due undici più odiati d’Italia: Bologna e Genoa. Alle sette in punto inizia la quinta finale. Quella buona. Quella senza tifosi, senza cori, senza sangue, almeno così sperano. Perché le precedenti non sono state solo partite: sono state battaglie.

Bologna-Genoa 1-2, 24 maggio 1925, stadio “Sterlino”

Le cronache ufficiali parlano di cinque match, di due squadre a pari livello, di equilibrio sportivo. Ma la verità – quella che si racconta nei bar genovesi o nei portici bolognesi – è molto diversa.

I giocatori del Genoa, campioni uscenti, sono stati i primi a potersi fregiare sulle maglie di un nuovo distintivo appena creato: lo scudetto tricolore

Tutto comincia a maggio. Genoa, squadra dei titoli nobiliari, dei portuali rossi, dei marinai e dei ragazzi che sognano l’Inghilterra. Bologna, squadra di fabbri e figli di contadini, ma con un amico in alto: Leandro Arpinati, podestà, fascista della prima ora, amico del Duce, vero e proprio manovratore nel calcio.

Il Bologna per la prima volta campione d’Italia

Nelle prime due sfide, ognuno vince in casa dell’altro. Ma è al terzo atto, a Milano, che la tensione esplode. Al fischio finale, il campo è invaso. Urla, pugni, bastoni. Si dice che un arbitro venga minacciato con una pistola, che i fascisti bolognesi scendano dal treno con spranghe già sporche di sangue. Si dice, ma nessuno scrive.

Il capitano genoano Renzo De Vecchi sovrasta di testa a Marassi il compagno di squadra Luigi Burlando e il bolognese Angelo Schiavio 

La FIGC annulla il match. Si rigioca. Torino, luglio. Ancora caos. Stavolta la violenza sale di grado: alla stazione Porta Nuova si spara. Due tifosi del Genoa vengono feriti. Pistole vere, non metafore. Lo scudetto non è più un trofeo: è un’ossessione.

Il Genoa, nove scudetti, un’onorabilità da difendere, non ci sta. Ma qualcosa si muove sottotraccia. Arpinati manovra, telefona, impone. La stampa tace, o minimizza. Chi alza la voce viene silenziato. Il fascismo ha bisogno di ordine. E un Genoa vincente, troppo “rosso”, non aiuta.

Giovanni Mauro, arbitro del primo spareggio (a sinistra) e Hermann Felsner, allenatore del Bologna

Così si arriva al quinto match. A porte chiuse. A Vigentino, alla periferia sud di Milano, un campo polveroso ospita la finale più triste della storia del calcio italiano. Il Bologna vince 2-0. Nessuno festeggia, tranne i dirigenti. Il pubblico è assente. Il Genoa, umiliato, non si presenterà nemmeno alla premiazione.

La stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova, teatro dello scontro fra le due tifoserie rossoblù che valse a questo campionato il soprannome di “Scudetto delle pistole”

Quel titolo, il primo della storia felsinea, ancora oggi brucia a Genova. È uno scudetto senza pubblico, senza bandiere, senza abbracci. Ma con pistole fumanti e fascisti in tribuna. Uno scudetto che non si dimentica.

Uno scudetto che, forse, non fu mai vinto sul campo.

Mario Bocchio

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