Il giorno in cui la Grecia sfidò l’Europa
Mag 22, 2025

Panathinaikos, 1971: l’epopea verde che arrivò fino a Wembley. Nessuno, ad Atene, dormì la notte tra il primo e il due giugno 1971. I balconi delle case sventolavano bandiere biancoverdi, i caffè restarono aperti fino a tardi, le radio gracchiavano canzoni popolari alternate a ipotesi di formazione, tattiche, sogni. In ogni quartiere, dal Pireo alle alture di Kolonaki, si respirava qualcosa che andava oltre il calcio: una tensione dolce, vibrante, una speranza collettiva, quasi religiosa. Il Panathinaikos era a Londra. Il Panathinaikos giocava la finale di Coppa dei Campioni.

Il tifo del Panathinaikos

Non una squadra, ma un simbolo. Non un’avventura, ma un’epopea. Perché mai, prima di allora, la Grecia del pallone si era spinta tanto oltre. E mai, dopo, sarebbe riuscita a rifarlo.

L’ingresso in campo di Ajax e Panathinaikos

Tutto cominciò nel modo meno prevedibile. Ferenc Puskás, leggenda ungherese, eroe della Honvéd e del Real Madrid, accettò di sedersi sulla panchina del Panathinaikos nell’estate del 1970. Aveva la pancia piena, Puskás, ma non il cuore. E in Grecia trovò un gruppo di ragazzi disposti a seguirlo come si segue un condottiero. Non parlava greco, non serviva. Parlava calcio.

Sotto la sua guida, il Panathinaikos prese forma come una squadra solida, fantasiosa, feroce. Mimis Domazos, il “Napoleone” del centrocampo, distribuiva palloni come ordini militari. Antonis Antoniadis, il gigante d’area, segnava con regolarità svizzera. Dietro, lo stoico Aristidis Kamaras era una diga umana. Ma non erano solo tecnica e grinta. Era qualcosa di più: era l’idea che, contro ogni logica, ce la si potesse fare.

Ferenc Puskás allenatore del Panathinaikos

Il cammino europeo li portò a superare i deboli lussemburghesi della Jeunesse, poi i cecoslovacchi dello Slovan Bratislava, gli inglesi dell’Everton e infine gli jugoslavi della Stella Rossa. La semifinale fu leggendaria: dopo aver perso 4-1 all’andata, ad Atene vinsero 3-0 in un Apostolos Nikolaidis gremito e ruggente. Al fischio finale, la gente invase il campo. Era fatta: la Grecia andava a Wembley.

Mimis Domazos, leggenda dell’intero calcio greco

Il viaggio verso Londra fu anche un viaggio dentro il cuore di una nazione. La dittatura dei colonnelli usò l’evento come propaganda, ma il popolo, quello vero, seppe distinguere. Il Panathinaikos non apparteneva alla giunta. Apparteneva alla gente. Ai pescatori del Pireo, agli operai di Peristeri, ai venditori ambulanti di Monastiraki. A chi credeva che la bellezza, anche se momentanea, potesse ancora vincere sul potere.

Lo stoico Aristidis Kamaras

Wembley, il tempio del football, li accolse come si accoglie un’anomalia. Dall’altra parte c’era l’Ajax: il calcio del futuro, la macchina perfetta di Rinus Michels, l’orchestra sinfonica con Johan Cruijff come primo violino. Nessuno dava una chance ai greci. Ma loro erano lì, con lo sguardo fiero e i parastinchi leggeri.

Stella Rossa Belgrado – Panathinaikos Atene 4-1, andata semifinali Coppa dei Campioni 1970-’71, una fase della partita. Al ritorno i greci vinsero 3-0 e si qualificarono per l’atto conclusivo


La partita, lo si seppe presto, sarebbe stata impari. Bastarono cinque minuti e Dick van Dijk infilò la rete difesa da Ikonomopoulos. L’Ajax giocava a memoria, muoveva il pallone con una logica geometrica implacabile. Il Panathinaikos cercava di resistere, e a tratti riusciva a rendersi pericoloso. Ma non bastava. Il secondo gol arrivò all’87’ con Arie Haan, dopo che i greci avevano lottato con ogni fibra del loro corpo.

Il raddoppio di Haan

Finì 2-0. Nessun miracolo. Ma anche nessuna vergogna.

Per Johann Cruijff fu il primo trofeo continentale

Eppure, tornando ad Atene, la squadra fu accolta come un’armata vittoriosa. Decine di migliaia all’aeroporto, cori, fiori, lacrime. La coppa non era stata vinta, ma il cuore di una nazione sì. Da quel giorno, ogni bambino con un pallone sognò di essere Domazos. Ogni allenatore voleva imitare Puskás. Ogni amante del calcio greco sapeva che un giorno, per un solo giorno, erano stati i più grandi di tutti.

Antonis Antoniadis, il gigante d’area, segnava con regolarità svizzera

Il Panathinaikos del 1971 non fu solo una squadra. Fu un’idea. La prova che anche chi parte da lontano può arrivare in cima. Che anche chi ha le scarpe rotte può camminare tra i giganti.

Oggi, più di cinquant’anni dopo, quella finale è leggenda. Nessun’altra squadra greca ci è mai riuscita. Nemmeno l’Olympiakos degli anni d’oro, nemmeno l’AEK dei brasiliani. E forse, proprio per questo, quella sconfitta è diventata vittoria.

Perché c’è un modo, nel calcio, di perdere diventando immortali. E il Panathinaikos del 1971 lo ha fatto, a testa alta, sotto il cielo di Wembley.

Mario Bocchio

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