
C’è stato un tempo, in Italia, in cui anche una città di provincia, incastonata tra i monti e lontana dalle luci delle metropoli, poteva sognare in grande. Quel tempo aveva un nome e un volto: Costantino Rozzi, presidente dell’Ascoli Calcio dal 1968 fino alla sua morte nel 1994. Geometra di studio, costruttore per vocazione, dirigente per passione travolgente. Con lui, Ascoli Piceno, 45 mila anime e un’anima ancora più grande, è salita agli onori della Serie A più volte, sfidando Milan, Inter, Juventus. E vincendo, a volte.

Rozzi non era un patron, ma un patriarca. La sua gestione era familiare, carnale, fatta di abbracci e battute in dialetto, di telefonate a mezzanotte e di un senso dell’appartenenza che oggi, nel calcio-azienda, si è dissolto. Era un presidente che piangeva e rideva con i suoi giocatori, che li chiamava “figli” e che era semplicemente chiamato “presidente‘” come fosse il sindaco ombra di tutta la città.
Il miracolo comincia nel 1974, quando l’Ascoli approda in Serie A per la prima volta nella sua storia. In panchina c’è Carlo Mazzone, romano verace, altro uomo di pancia e passione. Rozzi lo considera un fratello. Negli anni successivi in campo ci sono nomi come Gianfranco Bellotto e Adelio Moro, e più avanti un giovanissimo Giuseppe Iachini. La squadra, costruita con pochi soldi ma con idee chiare e spirito operaio, si salva e conquista il cuore di tutti.

Ma è nella stagione 1979-’80 che arriva la consacrazione: l’Ascoli chiude al quarto posto, miglior risultato della sua storia. Un’impresa quasi mistica, in un campionato dominato dalle grandi firme. Rozzi sorrideva a bordo campo, in cappotto e calzini rossi, come uno zio fiero il giorno del matrimonio del nipote.
Il miracolo non fu solo sportivo, ma anche culturale. Ascoli diventò simbolo di un calcio “diverso”: identitario, comunitario, umano. Ogni domenica il Del Duca era un teatro popolare, con il pubblico che sembrava spingere la palla oltre la linea, se non bastavano le gambe dei giocatori.

La rosa dell’Ascoli nella stagione 1979-’80: In alto, da sinistra: Mario Colautti, (allenatore in seconda), Stefano Leoni, Fausto Landini, (ceduto poi al Benevento), Simone Boldini, Sandro Tiberi (direttore sportivo), Giuliano Castoldi, Raul Di Croce, Felice Pulici, Domenico Stallone, Hubert Pircher, Fortunato Torrisi, Luigi Muraro, Giovan Battista Fabbri (allenatore). Al centro: Urbano Vannini (massaggiatore), Ilario Silvestri, Mauro Valori, Alessandro Scanziani, Donato Anzivino, Pietro Anastasi, Francesco Scorsa, Carlo Trevisanello. In basso: Sagripanti (magazziniere), Adelio Moro, Gian Franco Bellotto, Dario Bellomo, Italo Ferri, Silvio Paolucci, Maurizio Iorio, Eugenio Perico, Angiolino Gasparini, Gian Luca Cesaro
Rozzi era tutto: presidente, motivatore, mecenate. Diceva: “Io non sono un presidente ricco, ma so scegliere la gente”. E davvero sapeva: da Mazzone a Boškov, passando per Renna, Gibì Fabbri e Sonetti, fino a allenatori come Castagner e giocatori come Dirceu, Bierhoff, Casagrande e Bruno Giordano nella seconda parte della sua presidenza.

La morte di Costantino Rozzi, nel 1994, fu un lutto cittadino e morale. Morì il costruttore, ma anche il sognatore. Da allora, l’Ascoli ha vissuto stagioni alterne, tra cadute e risalite. Ma l’eco del miracolo resta: ogni tifoso bianconero lo porta ancora nel cuore, come un ricordo luminoso, una stagione della vita in cui tutto sembrava possibile.
Nel calcio moderno, dove le proprietà cambiano come le panchine, dove il business è spesso più importante del tifo, l’Ascoli di Rozzi è una nostalgia potente. Una storia vera, vissuta, che ancora oggi insegna che con passione, competenza e amore per il territorio si può arrivare ovunque.
Mario Bocchio