
Nel maggio del 1976, il cielo sopra Torino si tinse di granata. Non era una semplice vittoria sportiva, era un riscatto, una liberazione, quasi una resurrezione. Dopo ventisette anni di attesa, il Toro tornava campione d’Italia. E lo faceva nel modo più dolce e feroce possibile: superando la Juventus, la rivale di sempre, nella più serrata delle corse scudetto. Fu un trionfo costruito sul talento e sul carattere, ma anche su un’idea di calcio che sembrava venire da un’altra epoca, fatta di sudore, spirito di sacrificio e senso di appartenenza.

Radice in panchina, i gemelli del gol Pulici e Graziani in attacco, una squadra tosta e bellissima, senza primedonne ma con uomini veri. Era il Toro del popolo, il Toro che si aggrappa a ogni pallone come fosse l’ultimo, che gioca ogni partita come una battaglia. Un Toro che sembrava poter riscrivere la storia, finalmente libero dall’ombra lunga e tragica del Grande Torino, quell’irripetibile leggenda spezzata a Superga nel 1949. Eppure, proprio quel dolore antico continuava a vivere nel cuore della tifoseria, come un’eredità incancellabile, come un destino da onorare più che da inseguire.

Lo scudetto del ’76 non fu solo un trofeo. Fu una consacrazione, l’ultima grande gioia collettiva. Dopo, sarebbe arrivato un tempo diverso. Non subito tragico, ma neanche trionfale. Qualche buona stagione, qualche lampo. E poi l’inesorabile declino. La retrocessione, la risalita, gli anni grigi. Il Toro tornava a essere quel club romantico e tormentato, fedele al suo tremendismo granata, espressione perfetta per descrivere un’anima combattiva, quasi tragica, sempre sull’orlo di una crisi ma mai piegata del tutto. Il tremendismo è ciò che rende unica l’esperienza granata: la convinzione che nulla sarà mai facile, ma tutto sarà intensamente vissuto.

Negli anni ’90, con la presidenza di Gian Mauro Borsano, parve per un attimo che l’incantesimo potesse rompersi. Il Toro si riaffacciò in Europa, arrivò fino alla finale di Coppa UEFA nel 1992, persa con onore contro l’Ajax.
Pareggio a Torino, pareggio ad Amsterdam, ma soprattutto tre pali nella gara di ritorno: fu una di quelle occasioni in cui il destino sembrava divertirsi con la sofferenza granata. Un anno dopo, la Coppa Italia, sollevata al cielo con una gara epica combattutissima la Roma. Borsano sognava in grande, ma il sogno durò poco. Travolto da inchieste giudiziarie e problemi economici, il presidente lasciò, e con lui se ne andò anche la speranza di un Toro di nuovo protagonista.

Da allora, il Torino ha continuato a vivere la sua storia fatta di alti e bassi, con qualche salvezza all’ultima giornata, pochissimi derby vinti a sorpresa, e tanta, tantissima passione. Il Toro non è una squadra che si sceglie, è una fede che si eredita. È un amore che si coltiva nella fatica, un senso di appartenenza che non conosce condizioni. È la squadra dei padri e dei figli, dei nonni che raccontano di Valentino Mazzola e dei nipoti che piangono per un rigore sbagliato a Salerno.

Il 1976 è ancora lì, scolpito nella memoria collettiva come una vetta irripetibile. Ma nel cuore dei tifosi granata, ogni partita continua a essere una battaglia per onorare quella maglia, per tenere vivo un fuoco che non si spegnerà mai. Perché il Toro, in fondo, è questo: la nostalgia di ciò che è stato, la lotta per ciò che potrebbe essere, e l’orgoglio di essere diversi, sempre.
Mario Bocchio