
In Uruguay, il calcio non si gioca: si respira. Si sente tra le case basse di Montevideo, sui marciapiedi scrostati dove i bambini rincorrono ancora un pallone sgonfio, come se rincorressero la vita. Lo si vede negli occhi dei vecchi che raccontano il Maracanazo come fosse ieri, anche se di ieri non ha nulla: è un mito, e come tutti i miti, resta sempre presente.
In questo Uruguay fatto di ricordi, di poesia e lotta, Eduardo Galeano è ancora vivo. Non perché qualcuno lo celebri nei festival o nelle scuole, ma perché le sue parole abitano le partite della domenica, i campetti spelacchiati, le radioline gracchianti. Diceva che “il calcio è la cosa più importante tra le cose meno importanti”, e qui, questa frase è verità quotidiana.

Ma c’è un altro volto, ruvido e gentile, che ancora oggi dà senso a questo legame profondo tra il pallone e la terra: José Mujica. L’ex presidente, l’ex guerrigliero, il contadino. Uno che, come Galeano, ha sempre guardato il calcio dal basso, dalla prospettiva di chi non può permettersi di comprarlo ma lo sente suo. Perché è lì che il gioco diventa autentico: quando non c’è niente da guadagnare, ma tutto da vivere.
Mujica non ha mai fatto del calcio una bandiera politica, ma il suo modo di stare al mondo ha avuto molto a che fare con quello spirito collettivo che il calcio, nella sua forma più pura, sa ancora incarnare. Non quello dei milioni di euro, delle sponsorizzazioni, delle clausole. Ma quello che si gioca tra amici, su un terreno storto, con le porte fatte di pietre. Il calcio come scuola di umiltà, come esercizio di fraternità.
Nel suo campo alla periferia di Montevideo, tra fiori e galline, Mujica ha più volte detto che il vero pericolo è quando il calcio smette di essere un gioco e diventa solo un affare. Quando si spezza il legame tra il pallone e il barrio. Quando il sogno diventa carriera e non più evasione. “Ci rubano anche il piacere di giocare”, diceva, e non c’è rabbia in quelle parole, ma una nostalgia dolce e severa.

Come Galeano, Mujica sapeva che il calcio è specchio del mondo. E che oggi quello specchio ci rimanda un’immagine distorta: stadi come cattedrali, diritti televisivi come lingotti, bambini che sognano sponsor prima ancora di sognare un gol.
Ma non tutto è perduto. Finché ci sarà un angolo d’erba, una maglietta sudata, un abbraccio dopo un gol segnato per caso, il calcio resterà ciò che è sempre stato qui: un atto d’amore popolare. Un linguaggio che unisce, una passione che resiste. Un’idea di mondo in cui vincere non è l’unico verbo possibile.
In fondo, il calcio secondo Mujica è il calcio secondo l’Uruguay. Quello che non ha bisogno di luci né di algoritmi. Quello che appartiene a chi ha poco ma condivide tutto. Quello che non si vende, ma si tramanda.
Come una storia. Come una poesia di Galeano. Come un pallone che rotola e non si ferma mai.
Mario Bocchio