
Negli anni Ottanta, quando i riflettori del calcio italiano illuminavano i piedi dorati di Platini, Maradona, Zico e Falcão, su un’altura dell’Irpinia andava in scena un altro spettacolo. Più umile, più ruvido. Ma non meno eroico. Avellino, una città senza mare e senza metropoli, portava in Serie A il suo orgoglio contadino, la sua rabbia montanara e la sua voglia di restare viva. Per dieci anni, dal 1978 al 1988, l’Avellino è stato il piccolo Davide che ogni domenica sfidava Golia, e non di rado lo metteva sotto. È questa la storia di un miracolo sportivo e umano che il tempo ha provato a dimenticare, ma che resiste nei ricordi di chi l’ha vissuto e nei cuori di chi, anche solo per una stagione, ci ha creduto.

In quegli anni, la Serie A era il campionato più bello del mondo. Era la patria adottiva di fuoriclasse argentini e numeri dieci francesi, di goleador tedeschi e liberi brasiliani. I presidenti spendevano senza limiti, i giornali uscivano con tre pagine solo per i voti, le televisioni iniziavano a colorare le domeniche e il pubblico riempiva gli stadi come nei giorni di festa patronale.

In mezzo a questo firmamento, con la sobrietà di chi non ha nulla da ostentare, l’Avellino saliva in A nel 1978. Un evento che per molti era un caso isolato, una scampagnata di provincia nella città dei signori. E invece no: l’Avellino si stabilizzò in Serie A. Anno dopo anno, salvezza dopo salvezza, costruì la sua leggenda. Non aveva i soldi, non aveva il blasone, non aveva i fuoriclasse. Ma aveva la legge del Partenio.

Lo stadio, oggi Partenio-Lombardi, era molto più di un impianto sportivo: era una roccaforte, un campo di battaglia, un altare laico dove la fede per la maglia si esprimeva in urla, tamburi e fischi taglienti. Qui, dove l’erba era dura e l’aria d’inverno tagliava la faccia, cadevano i grandi. La Juventus ci ha perso. L’Inter ci ha perso. Il Milan pure. I tifosi erano vicinissimi al campo, quasi a voler entrare in scivolata con i loro beniamini. I cori non erano organizzati, erano istintivi, primordiali. E in casa, l’Avellino costruiva i suoi sogni.

Su 150 partite casalinghe negli anni Ottanta, l’Avellino ne vinse 63, ne pareggiò 60, ne perse solo 27. Una media da squadra da coppe, ma fuori dal Partenio era un’altra storia: trasferte difficili, punti raccolti col contagocce, salvezze ottenute con il fiato corto e il cuore largo.
Il punto più commovente di questa epopea fu la stagione 1980-‘81. L’Avellino partì con una penalizzazione di cinque punti per il coinvolgimento nel primo scandalo calcioscommesse. Un handicap che avrebbe affondato chiunque. Ma non basta: il 23 novembre 1980, alle 19,34, un terremoto devastò l’Irpinia. Fu uno dei momenti più tragici della storia italiana del dopoguerra. Mentre la terra tremava e le case crollavano, la squadra continuava a giocare. Non per mestiere, ma per missione.

Allenata da Luis Vinicio, quella squadra sembrava impossibilitata a salvarsi. E invece, nel silenzio di una città ferita, l’Avellino ricominciò a vincere. Il Partenio, se possibile, diventò ancora più infuocato. La salvezza arrivò all’ultima giornata, e fu una vittoria non solo sportiva, ma esistenziale. L’Avellino si era salvato due volte: dal baratro della classifica e da quello del destino.
In quegli anni vestirono il biancoverde campioni silenziosi, uomini che altrove non avevano trovato spazio o gloria: Stefano Tacconi prima di diventare numero uno della Juve, Salvatore Di Somma che incarnava l’anima operaia della squadra, Dirceu, poeta brasiliano della trequarti, e poi Barbadillo, Juary, De Ponti, Vignola, Alessio, Colomba. Non erano star, ma guerrieri. Alcuni sarebbero diventati grandi altrove, altri sarebbero stati grandi solo lì. Ma tutti, per chi tifa Avellino, sono ancora oggi eroi.

Il punto più alto in classifica arrivò nella stagione 1986-‘87. Mentre il Napoli di Maradona conquistava il suo primo scudetto, l’Avellino chiudeva all’ottavo posto. Un risultato straordinario per una città che non aveva neppure una vera ferrovia elettrificata. Fu l’ultima grande stagione prima della discesa. L’anno dopo arrivò la retrocessione, e con essa finì l’incantesimo.
Raccontare oggi il decennio in Serie A dell’Avellino significa riportare alla luce una favola vera, senza principesse né castelli, ma con fango, fatica e fierezza. Un calcio che non esiste più, dove la provincia aveva voce e il pallone poteva raccontare anche la storia di un popolo che non voleva restare indietro.
Non fu solo sport. Fu una forma di riscatto, un’identità costruita sui corner, sulle scivolate di Di Somma, sui gol sporchi, sui pareggi salvati al 90′. L’Avellino degli anni Ottanta era la dimostrazione che il calcio, a volte, sa essere giusto. Anche solo per dieci anni.
Mario Bocchio