
Nel silenzio ovattato che precede l’alba sul Lago di Como, il 28 aprile 1945, un uomo cammina con passo deciso lungo una stradina ghiaiosa di Giulino di Mezzegra. Porta con sé una storia di palloni e fucili, di lotte operaie e colpi di scena. È Michele Moretti, conosciuto tra i partigiani come il comandante Gatti. Un tempo calciatore di belle speranze, ora è uno degli uomini che si apprestano a cambiare per sempre il destino d’Italia. Accanto a lui, in un angolo di storia diventato simbolo, ci sono Benito Mussolini e Claretta Petacci.
Ma per comprendere come un giocatore della Comense sia finito nel cuore del più drammatico epilogo della Seconda guerra mondiale italiana, bisogna fare qualche passo indietro.

è del campionato di Prima divisione 1930-’31
Nato a Como il 26 marzo 1908, Michele Moretti non era un giovane qualunque. Cresciuto tra le colline lombarde, si distinse sin da ragazzo per il suo talento calcistico. Difensore arcigno e grintoso, Moretti iniziò la sua carriera calcistica nelle giovanili dell’Esperia, per poi giocare con la Comense (l’attuale Como) e infine con il Chiasso in Svizzera. Come terzino destro, contribuì alla promozione della Comense in Serie B nella stagione 1930-‘31, un’impresa che li vide vincere il campionato senza subire sconfitte.
Ma lui nel cuore covava un’inquietudine che il calcio non poteva placare.
Mentre i compagni parlavano di schemi e campionati, lui leggeva i testi del marxismo e ascoltava, in silenzio, le prime voci che parlavano di ribellione al regime. Quando il fascismo soffocò con violenza ogni forma di dissenso, Moretti capì che la partita più importante della sua vita si sarebbe giocata lontano dai campi verdi. Abbandonò il calcio e scelse la lotta.


Nel 1944, dopo l’armistizio, Moretti aderì alla Resistenza e divenne commissario politico della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici“. Le montagne della Valtellina e del lago divennero la sua casa. Il suo nome di battaglia, “Gatti”, iniziò a circolare tra i ranghi partigiani con rispetto e timore: era lucido, determinato, eppure umano, un uomo che prima di sparare guardava negli occhi.
Il 27 aprile 1945, una colonna fascista in fuga verso la Svizzera venne intercettata nei pressi di Dongo. Tra i prigionieri, travestito da soldato tedesco, c’era Benito Mussolini. Il Duce, colui che per vent’anni aveva governato l’Italia con pugno di ferro, ora sedeva tremante su un camion. Fu portato prima a Germasino, poi a Bonzanigo, infine a Giulino di Mezzegra.
Quel 28 aprile, nella quiete irreale del mattino, tutto era già deciso. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) aveva dato l’ordine: Mussolini doveva essere giustiziato. Il compito fu affidato al partigiano Walter Audisio, nome di battaglia “Colonnello Valerio”. Ma a quella missione partecipò anche Michele Moretti. Alcuni dicono che fu lui a puntare l’arma, altri che stesse solo a fianco di Audisio. La verità, persa tra i racconti dei sopravvissuti e le ombre di una guerra civile, rimane incerta.
Tuttavia, secondo alcune testimonianze – tra cui quella di Guglielmo Cantoni, altro comandante partigiano – fu proprio Moretti a premere il grilletto, ad aprire il fuoco che pose fine al Ventennio fascista.
Dopo la Liberazione, Michele Moretti non ricevette medaglie né onori. Anzi, fu travolto dallo scandalo legato all’“oro di Dongo”, ovvero i beni, documenti e denaro sequestrati alla colonna fascista. Con l’Italia ancora instabile e divisa, Moretti preferì fuggire. Trovò rifugio in Jugoslavia, dove visse da esule per quasi un anno.

Quando nel 1946 tornò in Italia, lo fece in silenzio. Rimase nascosto per mesi, fino a quando, nel 1947, la magistratura archiviò ogni accusa contro di lui. Ma l’uomo che aveva visto negli occhi Mussolini prima dell’ultimo respiro non fu mai più lo stesso.
Negli anni successivi, Moretti visse a Como, lontano dai riflettori. Lavorò come artigiano, partecipò all’attività sindacale e parlò poco di quei giorni. Ogni tanto, durante una chiacchierata al bar o un comizio tra operai, lasciava cadere qualche parola. “C’ero anch’io, quella mattina”, diceva. Ma non aggiungeva altro.

Morì il 5 marzo 1995, a 86 anni. Nessun funerale di Stato, nessuna lapide lo ricorda come l’uomo che forse, e solo forse, sparò il colpo più simbolico del Novecento italiano.
Michele Moretti resta una figura enigmatica: eroe per alcuni, esecutore per altri, calciatore divenuto giustiziere, simbolo di una generazione che, con coraggio e dolore, si prese sulle spalle il destino dell’Italia. In un Paese dove la memoria è spesso divisa, lui è rimasto un’ombra tra due mondi: quello dello sport e quello della guerra.
Ma forse è proprio in quel confine incerto che si trova il senso più profondo della sua storia. Una storia di scelte difficili, fatte nel nome della libertà.
Mario Bocchio