Ha avuto una grande fortuna nella vita: al liceo Cavour studiava letteratura italiana con Mario Fubini, quando passò all’università, al suo posto arrivò Leone Ginzburg. Fu lui a istillargli l’amore per la poesia e il teatro e a fargli recitare in pubblico i primi versi, amore che poi ha sempre conservato. Il professor Crescini di matematica, invece, gli dava 2: uno per il disturbo di essere venuto alla lavagna, uno per il disturbo di tornare al posto.
Studiava all’università, giurisprudenza, ma il suo professore di scienze delle finanze, Luigi Einaudi, non era entusiasta di lui. “La preferisco come calciatore che come economista” gli diceva.
Dopo la laurea, suo padre che era avvocato e voleva a tutti i costi che facesse l’avvocato, lo mise alla prova e lo mandò a Ciriè in pretura, dove cominciò la sua carriera con un fiasco madornale, perché la parte avversa aveva ragione e lui non poteva fare a meno di dargliela. Per cui tornò a casa e disse: “Ho perso la causa”; suo padre capì subito che non ero nato per fare l’avvocato.
Durante il periodo della scuola giocava a calcio nei prati vicino a casa, lo notò un dirigente del Torino e lo mandò a far parte di una squadra che era mitica, la squadra dei Balon Boys (ragazzi del Torino) 5 volte campione d’Italia.
Ha giocato nella prima squadra nel 1938-‘39.
Torino è una città che gli ha dato molto, è una città fattuale dove le parole erano solite essere concretate dai fatti, una lezione che è durata tutta la mia vita. Viveva a Torino dov’era dominante l’aristocrazia della classe operaia. Era una città chiusa e non si apriva con facilità, dovevi entrarci guadagnandoti la stima degli altri. Era vera, dura, concreta: gli ha insegnato che il fare viene prima del dire. Lui ci stava bene anche perché era innamorato del suo lavoro. E quando si amano le cose, di colpo si aprono vie impreviste, che non si possono lasciar perdere. Fu un periodo bellissimo, l’Italia attraversava un momento eccezionale, anni intelligenti, di grandi possibilità critiche, del dubbio elevato a sistema di indagine.
La classe operaia torinese era un mito. Loro dell’Unità andavamo nelle fabbriche a parlare con gli operai del problema del linguaggio: quello dei giornali era classista: come fare per farsi capire da tutti ? Vallone ricorda un pomeriggio alla Fiat Ferriere, tra gli altiforni enormi, con tre giganti in tuta che gli ricordavano mezz’ala al Toro e gli dicevano: “Qui dentro i tedeschi non sono mai venuti a trovarci”.
Il calcio è stato il suo divertimento anche se gli piaceva tanto recitare, non era un grande giocatore, ma aveva tanto fiato. Il suo non era Il “Grande Torino”, anche se erano forti, un anno furono campioni d’inverno, vincendo il derby al Filadelfia con la Juve e battendo l’Ambrosiana. Le due mezz’ale dell’Ambrosiana erano Meazza e Ferrari. L’allenatore, mister Erbstein, gli aveva detto di giocare in mezzo a loro, per cercare di spezzarne il fraseggio, ci riuscì abbastanza bene e alla fine vinsero soffrendo, 1 a 0.
Il Torino lo mandò in prestito Novara nel 1939 e con gli azzurri giocò appena sette partite, senza tuttavia brillare. Non aveva più l’entusiasmo dei primi tempi giovanili, le sue attenzioni erano ormai rivolte all’università (si laureò prima in filosofia e poi in giurisprudenza) al teatro, al giornalismo. Collaborava con “La Stampa” e con “L’Unità”
Smise con il calcio dopo la finale dei campionati mondiali goliardici, a Vienna, una delusione terribile. Convocato nella nazionale studentesca, andò in finale con la Germania, al Prater. Era l’indomani dell’Anschluss: l’Austria non esisteva più, giocarono di fatto contro i padroni di casa. L’arbitro ungherese non lasciava toccar loro la palla: appena si avvicinavamo all’area era fallo o fuorigioco inesistente. Persero, alla fine gli sputarono addosso. Ha avuto tanta rabbia per quella grave ingiustizia, che ha abbandonato il calcio e ha deciso di accontentare suo padre, che lo voleva avvocato, si è messo sotto con gli esami.