Raffaello Vernacchia detto Lello, nerazzurro atalantino. Per lui, 93 presenze suddivise tra il 1972-‘73 della retrocessione-beffa con Giulio Corsini allenatore e il ritorno dall’annata torinista nel 1974-‘76, biennio cadetto contraddistinto dai quattro allenatori: Heriberto Herrera sostituito da Angelo Piccioli, quindi Giancarlo Cadè rimpiazzato da Gianfranco Leoncini.
Riproduciamo la sua intervista a CalcioAtalanta.it di sette anni or sono.
“A Bergamo giocai solo tre stagioni, una di A e due di B. Ai tifosi che mi contattano su facebook rispondo sempre: ‘Ma avreste mai pensato di tornare in Europa? Ai miei tempi la salvezza era l’unica prospettiva”. Raffaello Vernacchia (“Abito a Modena ma sono del paese del Papa, Castel Gandolfo”) sbuca dai mitici anni settanta per celebrare il suo compleanno a suon di ricordi e confronti tra due epoche che sembrano così lontane: “Il piacere di avere indossato la maglia nerazzurra mi provoca la pelle d’oca ogni volta che la rivedo in televisione o che qualcuno mi chiede dei miei trascorsi. Non avrei mai voluto andarmene”.
Erano gli anni dell’altalena tra il palcoscenico del calcio nazionale e il piano di sotto.
“Proprio per questo i tifosi di oggi devono ritenersi fortunati. Erano comunque bei tempi, avere vent’anni e fare il calciatore professionista era un privilegio. L’Atalanta ci mandava nelle scuole a parlare coi ragazzini: seminava bene anche allora. Il presidente era un grande uomo come Achille Bortolotti, un tipo molto paterno, tra rimproveri e pacche sulle spalle. E Antonio Percassi era mio compagno di squadra. L’ho rivisto molto tempo dopo, seguendo Atalanta-Modena in B: mi avvicino, lo chiamo e subito due guardaspalle di un metro e novanta mi si fanno avanti. ‘Sono Vernacchia!’, gli faccio, e allora mi riconosce. Abbiamo fatto una bella chiacchierata”.
Com’era il futuro presidente?
“Un bergamasco puro, una persona squisita, un ragazzo schietto e pieno di vita che trasmetteva il suo essere bergamasco. A questo club e alla piazza non sarebbe potuto capitare di meglio. In campo mostrava tutta la sua personalità, da marcatore assiduo e duro. Già mentre giocava comunque aveva cominciato a pensare al dopo, a intraprendere una carriera extracalcistica. Ricordo anche Gaetano Scirea: un sinonimo di bontà, eleganza e signorilità. Ci giocai insieme anche al Viareggio, che avevo già disputato con la Fiorentina. Il direttore sportivo Franco Previtali e l’allenatore Giulio Corsini, che poi riebbi a Cesena prima di farmi male, non ci pensarono due volte a gettarlo nella mischia quando il libero titolare Giancarlo Savoia patì un infortunio”.
Annata 1972-‘73, la prima.
“E retrocedemmo perché vollero che andassimo giù, lasciamo perdere. Finii al Torino in comproprietà: quando Corsini mi disse nello spogliatoio che mi avrebbero ceduto ero incredulo, avrei voluto restare a vita. Alla fine i granata pagarono metà dei 300 milioni pattuiti perché non volli rimanere, attirato dalla corte spietata del dottor Giuseppe Brolis e del nuovo allenatore Heriberto Herrera, poi sostituito da Angelo Piccioli. Avevo fatto due gol in amichevole al Milan, sei presenze in campionato, altre in Coppa Italia e Coppa Uefa. Col senno di poi, un errore di gioventù: se sei a Torino non devi andartene. Se sbagliai fu per amore: quello per l’Atalanta era ed è fortissimo. Feci un altro anno in B con Giancarlo Cadè e Gianfranco Leoncini. Poi mi vendettero in Romagna”.
Com’era il calcio di allora?
“Posizioni e marcature fisse a centrocampo, il mio reparto. In serie cadetta giocai ala tornante, un 7 classico, mettevo cross e segnavo pure (11 in 54 presenze in B, 1 in 27 in A, NdR). Ma il primo anno ero un 8, facevo la mezzala con Giovanni Pirola. La chioccia, il mediano basso, era Ottavio Bianchi, tanta roba uno così che ti detta i tempi e le posizioni. A destra giocava Carelli, Musiello e Pellizzaro le punte. In B le mezze ali erano Augusto Scala e Mario Russo, la seconda punta Rizzati”.
Memoria vivissima.
“Impossibile dimenticarsi dei compagni, del modo di stare in campo, di tutto. Un ambiente come non ne ho mai più rivisti, anche se poi la mia casa è diventata Modena dove feci 120 presenze quasi a fine carriera. Ricordo allo stadio il giardiniere che mi gridava ‘s-cèt!’ e io non capivo cosa volesse: divertente, a ripensarci. Non ricordo di aver mai visto lo stadio vuoto. L’affetto e il calore sono i segreti della forza di questa società”.
“Avevo fatto Fiorentina nelle giovanili e poi Empoli, in seguito a Cesena mi ruppi il crociato e di fronte alla possibilità di rimanere zoppo per l’operazione la evitai seguendo i consigli del medico. Pensai al rinforzo muscolare tonificando il bicipite per non gravare sul ginocchio. Pippo Marchioro mi assicurò che mi avrebbe tenuto, ma io volevo la certezza di giocare. Prestito a Livorno. Tornai e mi volevano Dal Cin e Massimo Giacomini all’Udinese che poi avrebbe fatto il doppio salto dalla C: il presidente Dino Manuzzi resistette alla vista di un assegno da 100 milioni. Dicevano che nessuno avrebbe crossato meglio di me per Nerio Ulivieri, il loro 9. A Udine ci andò invece Elio Gustinetti che conoscevo bene, atalantino pure lui”.
Una vicenda professionale fatta di incroci.
“In C nel 1982, a Modena allenava Bruno Giorgi, l’ultimo tecnico nerazzurro di coppa prima di Gasperini. Eravamo in ballo per salire con Atalanta e Monza, in B ci andarono loro. Sbagliai anche un rigore e segnai un gol classificato come autorete. Per loro segnò Mutti dal dischetto”.
Come vede la Dea d’oggigiorno?
“La gioia di veder giocare una squadra che sento ancora mia è rimasta intatta. Come quando a scendere in campo ero io. L’Atalanta non è solo calcio: è socializzazione, è il piacere di stare insieme a gente che condivide passione ed emozioni. Il pallone deve essere al servizio del pubblico che assiste alle partite dal vivo. È qualcosa che unisce, non che divide. E poi mia figlia Alessandra è nata a Bergamo, come potrei non amare questa squadra e questa città?”.