Nativo di Bahia Blanca, provincia di Buenos Aires, segnò alla sua prima apparizione in campionato con la maglia del Quilmes. In grado di giocare sia da punta pura che da ala, si rivelò presto come uno dei giovani più promettenti del calcio argentino, tanto che a soli diciassette anni venne acquistato dall’Independiente.
Quelli in maglia biancorossa furono sei anni irripetibili: tre Coppe Libertadores, una Coppa Intercontinentale (a diciotto anni contro la Juventus), due campionati nazionali e uno metropolitano.Punto di forza della Nazionale argentina ai Mondiali del 1978, quasi al pari di un eroe omerico sognò di siglare la rete decisiva nella finale, e si prestò anche a ricostruire… preventivamente l’azione per la televisione a stadio vuoto. Poco più tardi, avrebbe esultato per il gol che mandava a tappeto la Grande Olanda (3-1 il risultato finale) e consegnava alla rappresentativa biancoceleste il suo primo titolo mondiale.
Rapido e potente, sgusciava bene in dribbling per presentarsi al tiro, che possedeva secco e preciso. Non era uno straripante goleador, ma un prezioso uomo-squadra che dalla corsia di destra si trasformava in centravanti. Osannato dalle folle, fu allettato dalle offerte del Siviglia, ma la Spagna non gli fu propizia. Alla prima stagione europea infatti il campione sudamericano deluse le attese, giostrando da semplice comprimario. Meglio andò al secondo tentativo: ormai più pratico del calcio iberico, tornò a sfoderare le zampate da fuoriclasse che l’avevano reso celebre e riprese a farsi pesantemente sentire in zona gol. Collezionò un bottino personale di sedici reti e tornò all’attenzione dei grandi club continentali.
A Firenze nel frattempo si vivevano attese febbrili. Gli anni Settanta avevano visto la Fiorentina costantemente esclusa dalla lotta al vertice della classifica, l’avvento al vertice del club dei conti Pontello aveva suscitato speranze e risvegliato l’entusiasmo. Decisi a superare l’era della mediocrità per rilanciare il colore viola nei quartieri alti, i nuovi proprietari avevano bisogno di nomi di grido: la riapertura delle frontiere allargava nuovi orizzonti.
Chi meglio di un campione del mondo in carica poteva rappresentare il leader della nuova squadra, la prima pietra per la costruzione di un gruppo in grado di lottare nuovamente per lo scudetto? Più che l’estemporaneo Kempes, Bertoni aveva entusiasmato al Mondiale per le sue caratteristiche “europee”, il piglio del fuoriclasse, la sostanza del grande trascinatore. Portare un campione del mondo a Firenze significava tornare a sognare.Eppure i tifosi lo accolsero un po’ freddamente, vuoi perché timorosi di vedere il loro idolo Giancarlo Antognoni offuscato dall’intruso, vuoi perché certe voci provenienti dalla Spagna indicavano l’argentino come un elemento poco disposto al sacrificio.
Il Bertoni visto in Argentina era potente, dotato di tecnica ed estro più una stoccata al fulmicotone. Ma si sa, il calcio italiano non è facilmente digeribile, in particolare dai sudamericani, spesso abituati a giocare affidandosi più all’istinto che alle indicazioni della panchina. Le prime prove del campo non fugarono completamente i dubbi. La stagione d’esordio non fu esaltante; eppure, lentamente, Daniel cominciò a entrare nel cuore dei tifosi gigliati per la sua naturale simpatia e per il calore che riusciva a trasmettere in ogni occasione. Certamente anche il rinsaldarsi del rapporto con la città contribuì al suo ambientamento e a poco a poco il campione ritrovò se stesso, anche se ancora mancava qualcosa in zona gol.
Nell’estate del 1981 arrivarono altri campioni: il regista del Torino, Pecci, e il suo terminale più prolifico, il centravanti Graziani. Ne nacque una signora squadra. Con Galli in porta, Contratto e Ferroni sulla linea dei terzini, Vierchowod stopper e Galbiati libero di costruzione. A centrocampo, il faticatore Casagrande, il metronomo Pecci e la luce di Antognoni, con Massaro tornante a supporto per gli attaccanti Bertoni e Graziani.
Campionato 1981-’82, una stagione che difficilmente gli sportivi fiorentini riusciranno a dimenticare. In quel torneo maledetto, segnato dal drammatico incidente occorso all’uomo simbolo della squadra, Antognoni, Bertoni si erse a leader e trascinò i compagni alla vittoria in più occasioni. Lo scudetto però svanì all’ultima giornata, il rigore di Brady a Catanzaro diede il tricolore alla Juventus mentre i viola non riuscivano a vincere a Cagliari. La stagione di Bertoni fu formidabile: da ricordare i suoi nove gol, la sua grinta di conducator, le sue sferraglianti scorribande offensive, il suo palleggio imprevedibile, i capelli al vento a inseguire la vittoria.
A giugno di quel 1982 è nuovamente tempo di Mondiali, questa volta da disputarsi in Spagna. Le cose però andranno maluccio per i Campioni uscenti, eliminati dall’ Italia di Rossi e dal Brasile di Zico. Bertoni va in gol solo nel trionfale 4-1 contro l’ Ungheria. Daniel comunque venne confermato in viola e anzi affiancato da un compagno della squadra del Mondiale ‘78, il “caudillo” Passarella. Si sognava la grande rivincita ma, si sa, la fortuna non sempre aiuta gli audaci.
A un anno di distanza dal dramma di Giancarlo Antognoni, la cattiva sorte decise di prendere di mira proprio Daniel Bertoni, colpito da epatite virale. I tifosi a quel punto si strinsero attorno a lui, con discrezione, sinceramente. Non passava giorno senza che qualcuno lasciasse davanti al cancello della sua casa un messaggio di incoraggiamento o un mazzo di fiori. E il pensiero dell’argentino correva alla stanza d’ospedale che aveva ospitato l’amico “Togno” e al coraggio e alla forza d’animo del compagno.
Dopo due mesi di sofferenze, con la squadra lontana dai vertici della classifica, finalmente Bertoni potè tornare a calcare i campi da gioco, per gli ultimi minuti di un Fiorentina-Cesena ormai saldamente in pugno ai viola. Il pubblico lo invocò a lungo e lo accolse con un’ovazione. Si commosse, quel gaucho dal cuore grande quanto la pampa. A seguire, un’altra bella stagione gigliata, l’ultima, a svezzare a suon di gol la giovane meteora Monelli. Fu terzo posto finale e a quel punto i Pontello, nuovamente delusi, decisero di ridimensionare gli obiettivi della squadra e, alla vigilia del campionato 1984-85, cedettero il fuoriclasse platense al Napoli.
Sotto il Vesuvio Daniel trovò un altro grande connazionale, il più grande di tutti i tempi. Si chiamava Diego Armando Maradona. Toccava al Napoli accarezzare sogni tricolori, e Ferlaino cercava il meglio di quello che offriva il mercato. E nel suo ruolo Bertoni era certamente a livelli d’eccellenza.
L’intesa col “Pibe” fu quasi subito perfetta (e Bertoni realizzò ben 11 reti), ma se i campani facevano faville in attacco, non altrettanto brillavano gli altri reparti e alla fine fu centroclassifica. L’anno seguente la presenza di Bruno Giordano al centro dell’ attacco limitò le sue famose incursioni, relegandolo ad un ruolo di raccordo che Bertoni svolse più che dignitosamente con 3 gol realizzati, di cui uno da antologia in mezza rovesciata contro il Lecce. Il Napoli nella storica stagione del suo primo scudetto gli preferisce Carnevale e Daniel si trovò disoccupato.
Ma ecco l’Udinese di Pozzo, con la missione impossibile della salvezza nonostante i nove punti di penalizzazione accumulati con la vicenda del calcioscommesse bis. Daniel però fallì completamente, gli uomini di De Sisti scivolarono malinconicamente in B, coi loro grandi non più capaci di essere grandi. Lo spelacchiato Graziani e soprattutto lui, l’ex Mundial d’Argentina. Picchio non era attrezzato per i miracoli. Ben altro che del misero golletto che Daniel riuscì a mettere a segno, avrebbero avuto bisogno i friulani.
E’ ormai arrivato il momento di abbandonare l’amata Pelota. Il suo nome ci ricorda gol e giocate straordinarie con il rimpianto che forse, potevano essere ben maggiori. Ma i cavalli di razza sono fatti così; per questo, “punteros” come Daniel avranno sempre il potere di accendere l’ entusuiasmo delle folle.