Se uno nomina Angelo Schiavio, a Bologna tutti capiscono al volo. Succede, quando ci si trasforma da campione in leggenda. Eppure, discreto com’era, “Anzlèin” si sarebbe schernito immediatamente: per lui il pallone era una passione immensa, ma la vita era anche altro e lo dimostrò spendendola bene, da imprenditore di successo, dopo la parentesi sportiva. Dicendo sempre che era stata anche una questione di fortuna. Minimizzando, quando numeri e ricordi ne facevano (e ne fanno) il numero uno della storia rossoblù.
Pure, nelle parole del campione c’era un fondo di verità. La fortuna è indovinare il momento e avere sempre un po’ di vento alle spalle, quanto basta per permettere al carattere di fare il resto. La fortuna è quella che ha dato tanto a Schiavio, paradossalmente togliendo molto di più al suo predecessore. A Cesare Alberti, che fu un bomber devastante, ma che fece appena in tempo a mostrare i suoi lampi di classe prima di volare via da questa terra ancora giovanissimo. Troppo presto perché poi il suo nome restasse scolpito nella memoria.
Cesare Alberti era un fenomeno vero. Uno dei famosi “ragazù” della nidiata coltivata da Angelo Badini, campione e trascinatore di un Bologna di pionieri, che con un occhio rivolto ai giovani di fatto sviluppò la squadra che avrebbe poi conquistato il primo scudetto della storia rossoblù, nel 1925. Talento da vendere e una carriera da campione che pareva già scritta. Nella sua vita incrociò gloria, fama, buio, rinascita, tragedia. Rileggiamola, questa vita luminosa e fugace come una cometa.
Cesare nasce nella Bassa, a San Giorgio di Piano, il 30 agosto 1904. Arriva a bazzicare lo Sterlino seguendo il fratello minore Guido, mezzala del Bologna dal 1912 al 1915, che un’epidemia porterà via a ventun’anni, durante la Grande Guerra, nel 1918. Centravanti purissimo, talento cristallino, dalla nidiata di Angiolino Badini approda giovanissimo alla prima squadra, grazie all’intuito di Herman Felsner. Lo chiamano già “Mimmo”. Nel gruppo è mascotte e fuoriclasse insieme.
Debutta a sedici anni, e in 17 partite del campionato di Prima Categoria realizza 13 reti. L’anno dopo ne fa 14 in 22 partite, e nella terza stagione da titolare è già a 5 su 6, quando arriva la mazzata. È la stagione 1922-‘23, il Bologna gioca in casa con la Cremonese e Alberti si fa male al ginocchio. Sembra un problema da niente, un mese dopo è di nuovo in campo. Ma il dolore è forte, e nuovi esami rivelano un danno apparentemente insormontabile: rottura del menisco. Un pugno nello stomaco: c’era già una maglia azzurra pronta per lui. Aveva anche risposto, poco prima, a una convocazione della Nazionale Operaia, una “sperimentale” che aveva schiantato la rappresentativa francese: 7-1, con sei reti firmate da lui.
I sogni si infrangono all’improvviso. Un’operazione al menisco, in Italia, non è mai stata tentata. Non ci crede nemmeno il Bologna, che lo svincola lasciandolo libero e ne perde le tracce. Un anno dopo Cesare è a Genova, dove un noto chirurgo, il professor Federico Drago, gli prospetta un intervento di asportazione del menisco. Operazione largamente sperimentata in Inghilterra, ma in Italia quella di Mimmo sarà una prima volta assoluta.
Funziona: nella stagione 1924-‘25 il campione è di nuovo in campo, ad ottobre. Ma il rossoblù è un altro: a offrirgli il contratto è stato il Genoa di William Garbutt, che aveva sostenuto l’operazione accollandosi tutte le spese per l’intervento del giovane campione. In quella stagione Alberti rinasce, segnando dieci reti in venti partite. La via del gol non è smarrita. Il destino vuole che sia proprio lui ad aprire le marcature nella prima delle cinque storiche finali tra Bologna e Genoa del 1925, allo Sterlino. I tifosi bolognesi lo chiamano traditore, ma lui non lo merita. Il Bologna nutriva ben poche speranze in un suo ritorno al calcio. Quello che è riuscito a riconquistare, è sudato e guadagnato.
Cesare sembra destinato a una nuova vita calcistica. Era dato per finito ed ha saputo rinascere, accettando una grande sfida. Il Genoa perde lo scudetto, ma lui ha ritrovato la vena. La stagione successiva inizia alla grande: otto reti in undici partite. Sembra una favola a lieto fine, e invece la tragedia è in agguato. Lo colpisce in modo banale, assurdo: un’infezione virale, causata a quanto pare da un piatto di ostriche mangiato in compagnia dei compagni del Genoa in un ristorante, alla vigilia della sfida col Torino. Pare, appunto: perché qui il racconto si fa romanzo d’appendice. C’è di mezzo una donna misteriosa, bellissima e volubile, a cui Mimmo aveva appena detto addio poche ore prima della cena fatale con i compagni. Nessuno dei quali, va detto, si è sentito male dopo aver mangiato. A poco più di vent’anni puoi avere una passione, anche intensa, ma lui è ancora innamorato di Caterina, la figlia di Rinaldi, il custode dello Sterlino. È lei la donna della sua vita. Cesare sentiva il bisogno di chiarire. Il mistero è intorno a quelle ore, a quella donna. La passione che brucia l’amore vero. Quella donna che nemmeno andrà a cercarlo in ospedale, dopo. Né si presenterà al funerale. E che in quattro e quattr’otto chiuderà il negozio che gestiva e sparirà per sempre dalla città. Nel dramma, un filo spesso di mistero.
Mimmo Alberti muore nella notte del 14 marzo 1926, a soli ventun’anni. L’età in cui se ne era andato anche il fratello Guido. Poche settimane dopo, la sua Caterina si uccide gettandosi dalla finestra di casa, vicino ai Giardini Margherita. Sembra uno di quei racconti scritti soltanto per stupire il lettore. Invece è una storia dannata, unica, incredibile. Tragicamente vera. È la storia del bomber che lasciò una strada aperta al ragazzo che lo sostituì nell’attacco del Bologna. Quel ragazzo era proprio Angelo Schiavio. E pensare a quello che avrebbero potuto fare insieme, quei due fenomeni del pallone, lascia un senso di profondo rimpianto.