Tonino Tempestilli è un pezzo di Roma. Prima tifoso, poi giocatore, di seguito allenatore delle giovanili e infine dirigente e team manager. Trent’anni in giallorosso. Nella vita spesa da difensore gli si è appiccicato addosso un soprannome simpatico, “Er Cicoria”. Questo perché, proprio come la pianta selvatica, si faceva trovare in ogni zona del campo a dare una mano. Insomma, era l’uomo ovunque. Sempre presente. “Giannini, Conti e Pruzzo si inventarono quel soprannome”, ricorda con un sorriso Tempestilli che ha difeso i colori della Roma per sei stagioni (dal 1987 al 1993), durante le quali ha raccolto 162 presenze e 7 reti conquistando tra l’altro una Coppa Italia nel 1991. Tante battaglie, tante gioie, ma anche tante delusioni: spicca la finale di Coppa Uefa persa in gara doppia contro l’Inter di Trapattoni.
Tempestilli, quando è diventato tifoso giallorosso?
“Da bambino. Bisognava scegliere tra Roma e Lazio e io scelsi la Roma. In città funzionava così, non è che ti potevi innamorare delle squadre del nord. Adesso sembra che sia un po’ cambiata questa mentalità nelle nuove generazioni”.
Banco di Roma, Inter e Como. Poi arriva la grande chiamata…
“Non potevo dire di no alla Roma, anche se mi volevano tante squadre”.
Chi si era fatto avanti?
“Il Napoli ma anche la Juventus, però ripeto: per me era un onore tornare a casa anche se la proposta economica era quella meno allettante. I soldi non sono mai stati una mia priorità”.
Sei stagioni non sono poche…
“Ho tanti ricordi. E li conservo tutti, belli e meno belli”.
Con la maglia del Como
L’annata migliore?
“Sicuramente la prima perché arrivammo al terzo posto in campionato”.
Roma-Partizan 2-0 in Coppa Uefa. Lei c’era.
“Una rimonta cercata e voluta che ci permise di accedere agli ottavi di finale. Giocammo bene e non era facile soprattutto dopo quello che era successo all’andata, lì a Belgrado. Era capitato di tutto tra l’incendio in tribuna, il 4-2 finale, la polizia e un accendino che colpì al volto Giannini”.
Nel 1991 si arriva in finale di Coppa Uefa contro l’Inter. Fa ancora male?
“Un grande rammarico. Perdere una partita del genere davanti ai propri tifosi è la cosa più triste. Per certi versi l’1-0 dell’Olimpico, non utile per ribaltare il 2-0 di Milano, fu vissuto un po’ come l’ultimo atto di Europa League dell’anno scorso, contro il Siviglia. La Roma meritava di vincere, meritava un altro epilogo”.
Però quella cavalcata è stata incredibile.
“Senza dubbio. Fu un crescendo e nessuno si aspettava di vedere la Roma in fondo alla competizione. Il calcio italiano era ben rappresentato”.
Gli avversari più tosti sul cammino?
“Sia il Bordeaux che l’Anderlecht. Erano due squadre fortissime. Non eravamo favoriti ma riuscimmo a eliminarli e quindi ad aumentare la fiducia in noi stessi, turno dopo turno”.
L’allenatore che le ha dato di più?
“Da tutti i tecnici ho cercato di prendere il meglio. Quello che mi ha spalmato più degli altri è stato Ottavio Bianchi, che ho avuto a Como e anche con la Roma. Aveva un carattere particolare, era burbero, ma di calcio se ne intendeva e pure parecchio. Conosceva tutto di tutti. Era un’enciclopedia vivente”.
In linea generale in campionato si faticava…
“Dovevamo fare di più, la squadra a volte non riusciva ad esprimersi ma il supporto del pubblico era sempre unico e speciale”.
Come se lo spiega?
“Erano gli anni di Maradona e Platini e di tantissimi campioni. Il livello in Italia era altissimo. Anche in Europa. C’erano, tra gli altri, Van Basten, Careca e Passarella”.
Nella Roma
L’attaccante che soffriva di più da marcare?
“Facile dire Maradona, che era difficile da contenere. Personalmente temevo Laudrup che stava nella Juventus e che poi è andato al Barcellona. Era veramente un giocatore fantastico”.
I punti di forza della sua Roma?
“I pilastri erano Bruno Conti, Giuseppe Giannini e Rudi Völler. Loro erano quelli che facevano la differenza in campo e fuori”.
Giuseppe Giannini le ricorda un po’ Lorenzo Pellegrini?
“Sono dei ragazzi stupendi, bravi tecnicamente, che amano a dismisura questi colori. Anche come carattere mi sembrano simili. Giuseppe ha fatto tanto per la Roma ma non è stato preso in considerazione per lavorarci una volta finita la carriera da calciatore. Questo secondo me è un gran peccato”.
C’è un Tempestilli nella rosa di Mourinho?
“Forse Mancini ha qualcosa delle mie caratteristiche, è determinato e forte. È in definitiva un difensore che non ha paura di nessuno. Però, per i miei gusti, si lamenta e parla un po’ troppo con gli arbitri e gli avversari. Io ero diverso da questo punto di vista”.
Chi era il Dybala della situazione?
“Uguale nessuno. Sforzandomi direi Rudi Völler, ma stiamo parlando comunque di due giocatori con una fisicità molto diversa. Però tutti e due con colpi per risolvere le partite da soli”.
I gol in maglia giallorossa ai quali è più legato?
“Ne dico due, anche se non segnavo tantissimo. Il primo è quello che ho fatto al Flaminio contro l’Inter che ci ha permesso di rimontare la partita: calcio di punizione ribattuto, anticipo un difensore e segno nella porta di Zenga. Una gioia incredibile. Il secondo è quello in Coppa Italia contro la Juventus. E poi ricordo molti autogol ma è meglio non soffermarsi su questi”.
Dopo trent’anni il rapporto con la Roma si è interrotto bruscamente. È una storia superata?
“No, è la più grande delusione. Per la Roma ho lasciato da parte la famiglia. Ho dato tanto e ricevuto tanto. L’addio è stato inaspettato, la cosa che non avrei mai voluto. Solitamente c’è sempre un inizio e una fine. Ma i rapporti possono finire in maniera diversa. Sono stato quasi bannato dalla Roma. Il dispiacere resta enorme. Sai, se uno ha rubato, sta zitto e va via. Io ho sempre lavorato a testa alta per il bene della Roma senza commettere errori come altri”.
Dopo una parentesi alla Reggina, ha lavorato per il Velletri. È ancora lì?
“Ho dato una mano a degli amici per un breve periodo, la distanza era notevole da dove abito a Roma. È stata comunque una bella avventura”.