Nessuno meglio di Giordano Cinquetti incarna lo spirito biancorosso. Per tre volte in epoche diverse il Bombardone (“Il soprannome credo sia farina del sacco del massaggiatore Lamberto Soci”) ha vestito la maglia del Rimini, qui ha messo su famiglia, qui ha allenato nel settore giovanile. Fino al 2015 è stato il miglior marcatore della storia del club (60 gol, tutte nei professionisti, più di cento in carriera e una trentina in Coppa Italia), poi superato da Adrian Ricchiuti. Cinquetti, classe 1953, è il Rimini e basta.
Fu una delle scoperte del ds Rino Cavalcanti, uno che – raccontò nel tempo il talent scout – consumava un’auto all’anno alla scoperta di talenti in giro per l’Italia (uno su tutti: Roberto Bacchin acquistato dal Belluno per 40 milioni e venduto a 250 al Toro di Radice). E a Verona il buon Rino individuò questo ragazzone che ha 18 anni fece il debutto in serie A in Roma-Verona entrando a partita in corso e giocando dall’inizio due stagioni dopo (1973-‘74) in Fiorentina-Verona 2-1 prima di arrivare in Romagna.
“Era un altro calcio, molto più familiare. Si conoscevano tutti quelli che venivano agli allenamenti, c’era più contatto umano anche se lo stadio era pieno come un uovo – dice il Cinquettone mentre sfogliamo il suo fantastico album dei ricordi e in ogni foto gli spalti del Romeo Neri sono gremiti – . Arrivai a Rimini nel novembre del ’73, a metà settimana. Saltai il derby di Riccione. Contro l’Empoli, sette giorni dopo, mister Faccenda mi fece entrare a 25 minuti dalla fine sullo 0-0. Mi chiese: ‘Te la senti di entrare?’. Lo guardai: ‘Mister, io sono venuto qui per giocare…’. Calciai una palla che si stampò sulla traversa e rimbalzò a tre quarti campo. Vincemmo 2-0. Io segnai nove reti. Mi trovai subito bene. Nei tre anni la squadra cambiò poco: nella seconda stagione arrivarono Di Maio, Romano, Sclocchini. Nella terza Fagni e Carnevali in attacco per Asnicar e Frutti. Tre Rimini fortissimi”.
Al primo anno il primo posto è della Samb, una formazione ancora più agguerrita, al secondo del Modena. Alla terza stagione ecco la promozione in serie B.
Che ricordi ha di questi due ultimi campionati e dei mister Angelillo e Meucci?
“Angelillo era ancora giocatore, era uno di noi. Purtroppo io fui operato di menisco e rimasi fuori tre mesi perché allora i tempi di guarigione erano quelli. Portai il gesso dall’inguine alla caviglia per un mese. Non c’era allora palestra per la rieducazione, consumai i gradoni dello stadio Neri per rimettermi in forma. Alla fine segnai solo quattro gol”.
Cesare Meucci?
“Conosceva a memoria le caratteristiche di ogni avversario: se era destro, sinistro, come faceva le finte. Era questa la nostra tattica. I ruoli erano bloccati: due marcatori, il libero, il mediano sulla mezzala avversaria, due centrocampisti che costruivano, due punte. Io facevo il tornante, ero destro, ma facevo gol anche di sinistro e soprattutto servivo molti assist. Era più difficile segnare ai miei tempi: i capocannonieri viaggiavano sulle 16-17 reti”.
Il motivo?
“Per prima cosa l’effettivo tempo di gioco era inferiore: si giocava con un solo pallone e quando andava in tribuna si perdeva tempo per recuperarlo. La regola del retropassaggio al portiere non esisteva. Insomma, c’era parecchio ostruzionismo e i difensori ti marcavano per davvero. Il Rimini di Meucci era di grande qualità, nel girone di ritorno pagammo qualche infortunio, a Teramo conquistammo la B grazie ad un 2-2 dopo essere andati avanti di due gol, uno dei quali mio. Ricordo che sbagliammo un sacco di reti perché ognuno voleva segnare e non ci passavamo mai la palla”.
C’è una partita ancora scolpita nella memoria?
“Rimini-Massese 3-2. Realizzai uno dei gol più belli: una bomba su punizione da molto lontano con palla nel sette. Poi, dopo una progressione irresistibile, servii l’assist a Fagni che andò in rete con un dribbling magistrale. Una azione spettacolare. A fine stagione saranno nove le mie reti anche se le statistiche dicono otto”.
Dal Rimini alla serie A al Perugia di Castagner in cambio di soldi e del trio Raffaeli- Sollier-Pellizzaro.
“Con sei reti fui il migliore marcatore dopo Vannini con nove. In casa battevamo tutti. Giocavo con Novellino, miei compagni erano anche Agroppi, Curi, Amenta, Frosio. Ci piazzammo a pochi punti dalla zona Uefa: allora si qualificava una sola squadra. Andai via con dispiacere e mister Castagner in una intervista a fine mercato manifestò il suo profondo rammarico. C’era un ottimo ambiente: alle ore 18,30-19 di ogni giorno i giocatori passavano in sede per un saluto. Eravamo una vera famiglia”.
Perché fu ceduto al Pescara?
“Penso che il Rimini chiese una cifra che il Perugia non volle pagare per il cartellino e del resto un giornalista perugino mi fece capire verso fine campionato che in virtù delle mie sempre migliori prestazioni il costo era lievitato e il Perugia a suo dire avrebbe fatto fatica a trattenermi. Andò proprio così. Il Pescara diede De Michele e soldi per il sottoscritto. Cavalcanti mi raccontò che aveva adocchiato il giovanissimo Bagni e voleva imbastire una trattativa di comune accordo col ds del Perugia, Ramaccioni. Invece Ramaccioni raccolse l’input di Cavalcanti e si mosse in solitudine ‘rubando’ Bagni al Rimini. Penso che Cavalcanti non digerì lo sgarbo. Forse anche per quello fui ceduto al Pescara”.
Al Pescara resta tre stagioni, due in A inframezzate dalla retrocessione in serie B.
“In Coppa Italia per via di una distorsione al ginocchio vivo una via crucis: per tre volte vengo ingessato. Gioco solo 13 partite, la squadra guidata da mister Giancarlo Cadè retrocede. L’anno dopo è Carlo Mazzone l’allenatore. Mi porta a Roma dal professor Lamberto Perugia per una visita specialistica. Il quadricipite è atrofizzato per cui devo lavorare duro in palestra per recuperare il tono muscolare. Al controllo successivo va tutto bene, ma nel frattempo Mazzone lascia il club per la cessione del difensore Andreuzza che non condivideva e ritrovo Angelillo. Vinciamo il campionato ed è gloria anche per me: cinque gol in 31 presenze. Ma non fu tutto rose e fiori. Il mister non mi considerava all’inizio visto che venivo da un infortunio, feci presente alla società che volevo essere ceduto e tornai a casa a Rimini per un breve periodo fin quando non fui richiamato. Fu allora che Angelillo mi buttò nella mischia e segnai dei gol decisivi”.
L’anno dopo è serie A, ma andò male. Perché?
“La serie A è la serie A. La squadra comunque non era male e se la giocò a testa alta fino alla partita di Udine quando l’arbitro Gino Menicucci ci fischiò contro un rigore vergognoso. Il mio compagno di squadra Chinellato gli disse: ‘Ci vorrebbero oltre che i giocatori anche gli arbitri stranieri….”. Anche io presi due giornate di stop perché dissi qualcosa seppure da lontano, mister Gustavo Giagnoni fu inibito per otto mesi. Fu l’inizio della fine. Il nostro campo fu squalificato per due giornate. Comunque battemmo 1-0 il Napoli con mia rete su punizione e il Milan 2-1; segnai anche quella volta”.
E nella stagione successiva passa proprio all’Udinese.
“La cessione avviene a novembre per 500 milioni, mister Agroppi, mio compagno di squadra al Perugia, diede le dimissioni per poi ritornare”.
Che tipo era Aldo Agroppi?
“Da buon toscanaccio aveva sempre la battuta pronta. Pretendeva che i giocatori si comportassero come faceva lui da giocatore. Era meticoloso, rigido, soprattutto sull’alimentazione: dopo la partita non voleva si cenasse al ristorante. Era sempre teso come una corda di violino: per questo smise di allenare”.
Torniamo all’Udinese…
“Fu una stagione sfortunata. Mi volle a tutti i costi Giagnoni che prese il posto di Marino Perani per poi venire sostituito a sua volta da Enzo Ferrari, che allenava la Primavera. Quest’ultimo non mi vedeva. Però la sera prima della sfida decisiva per la salvezza ad Avellino bussò alla mia camera. Come Faccenda al Rimini, mi chiede se me la sento di giocare. ‘Mister, certo che me la sento’. Faccio una bella partita, la domenica dopo arriva la Juve, ma io al mercoledì purtroppo mi strappo il quadricipite tirando in porta sul campo pesante. Avevo un buco nel muscolo. Non rientrai più e alla fine furono solo 15 le mie presenze praticamente tutte con Giagnoni, una persona squisita oltre che un bravo tecnico. Veniva a trovarmi a casa quando ero a letto con la febbre”.
Ricordi pescaresi
Lei ha avuto anche Cadè e Di Marzio.
“Cadè al Verona, poi mi ha portato al Pescara il primo anno di serie A. Era una istituzione: ci fu una petizione di 15mila firme per farlo restare. Ho un ottimo ricordo di lui. Completamente diverso Gigi Di Marzio, un carattere esuberante, a suo modo un personaggio. Un allenatore che ti dava grinta, calcolatore. Arrivava sempre in ritardo all’allenamento e si giustificava dicendo che stava lavorando per noi”.
Nel 1982 lei ha 29 anni. È nel pieno della carriera, reduce dalla stagione cadetta al Lecce dove ha giocato 22 partite segnando quattro reti di cui quella decisiva nel derby contro il Bari. Perché accetta di tornare al Rimini nel frattempo retrocesso in serie C?
“Perché per me il Rimini è sempre stato un club speciale. Il ds Renzo Corni mi convinse dicendo che si voleva vincere il campionato e per me sarebbe stato meglio primeggiare in C che lottare per salvarsi in serie B. Se avessi preso tempo avrei trovato di certo un club cadetto, invece dissi subito sì. Parlai anche con Arrigo Sacchi. ‘Se vuoi bene al Rimini devi dimostrarlo anche col contratto’ mi disse Corni. E io accettai l’offerta. Diciamo che nelle mie otto stagioni al Rimini ho certamente dato di più di quanto abbia ricevuto”.
In quella stagione segnò solo due reti giocando ad intermittenza…
“Con Sacchi per me non è stato tutto rose e fiori e così per i più esperti come Mirco Fabbri e Mario Nicolini. Noi tre là davanti non potevamo dargli quel che gli dava il giovane Gaudenzi, uno che correva dietro a tutti. In Coppa Italia segnai tre reti con Udinese, Bari e Verona, squadre di A e B. Poi dopo l’intervento al menisco e una distorsione alla caviglia il mister mi tagliò fuori. Forse pagai anche uno scambio di vedute su uno schema che Sacchi pretendeva: io obiettai qualcosa e mi sa che lui la prese male anche se lì per lì abbozzò. Non ero più un titolare. Sacchi è stato un grande, per carità, ma io credo che allora quel Rimini con i migliori giovani d’Italia e giocatori esperti di valore e motivati, potesse fare meglio del quarto posto finale. Pagammo alla lunga allenamenti massacranti, anche tre sedute al giorno, un ritiro a Carpegna nella sosta pasquale. C’era il pensiero fisso ai movimenti da fare in quella determinata situazione tattica, che erano standard e non si poteva sgarrare”.
La sua fantasia ha avuto più soddisfazione con Materazzi nel campionato seguente…
“Giocai 30 partite e realizzai 12 gol. Era anche quella squadra giovane. Ci piazzammo in un onorevole centro classifica”.
Come nasce l’avventura al sud con Campania e Sorrento?
“Il Campania, poi Puteolana, mi fa un’offerta irrinunciabile. Gastone Montesi mi dice: ‘Giordano, vai pure subito’. Il mister è Giorgio Sereni poi sostituito dal dt Bruno Pesaola. Con me giocavano Chiodi e Campilongo, la squadra è forte, ma ci piazziamo solo a metà classifica nonostante i miei 12 gol”.
Che tipo era il Petisso?
“Era un personaggio. Non si spogliava mai, gli allenamenti li conduceva il vice. Potrei scrivere un libro su di lui. Vi racconto solo questa: per la lunghissima trasferta di Casarano l’appuntamento è per le 6.30 al pullman. Lui si presenta alle ore 10. Dormì per tutto il viaggio”.
Il Sorrento?
“Era una matricola allenata da Canè, ex Napoli. Tanto bello il posto, da fotografia in ogni suo angolo, quanto brutto il campo da gioco. Era di sabbia tanto sottile da assomigliare all’asfalto. In estate al mio arrivo allo stadio sgranai gli occhi: allo stadio c’era una montagna di sabbia. ‘Tranquillo Giordano, verrà stesa, sarà un campo da biliardo’ mi assicurano. Infatti… Giocai poco perché ero sempre infortunato: spesso ero da Mimmo Pezza a farmi curare. E in società pensavano che non volessi giocare”.
A 33 anni torna al Rimini appena retrocesso in C2.
“Ero un aggregato in ritiro a Peglio. Non tutti in società mi vogliono, ma mister Osvaldo Jaconi dopo la prima partitella convinse la società: feci gol su azione con tiro da 30 metri e poi su punizione. E in ritiro ci raggiunge la notizia del ripescaggio in C1. Jaconi era un allenatore che insegnava a giocare e dava buono spazio ai giovani. In quella stagione segnai 10 gol, in quella successiva 12 con Galdiolo mentre nella terza, ancora con Jaconi retrocedemmo con soli 15 punti e le mie sei reti”.
Che cosa non andò per il verso giusto?
“Pagammo da un lato l’inserimento nel girone meridionale e dall’altro una serie incredibile di infortuni tra cui quello di Mirco Fabbri, Loris Bonesso, Claudio Balesini e il mio: dopo aver segnato e colpito una traversa mi strappai all’inguine calciando due volte di potenza una punizione perché l’arbitro l’aveva fatta ribattere. Il match? Contro il Foggia al Neri. Il Rimini sembrava un ospedale. Sentii una fitta atroce tanto non potermi rialzare da terra. Non guarivo mai tanto che al rientro non riuscivo a calciare forte. Jaconi a fine stagione mi portò a Lecco in serie D: anche lì doppia cifra: 10 reti, secondo posto dietro il Leffe e ripescaggio in serie C2”.
Cinquetti, a che età smette di giocare?
“A 41. A Santarcangelo in Promozione sono la chioccia di una squadra giovane che riesce a piazzarsi tra le prime e quindi a garantirsi la stagione successiva la partecipazione alla Eccellenza che nascerà. Poi per tre anni sono al Rivazzurra in Prima categoria a contestualmente comincio ad allenare al fianco di Firmino Pederiva”.
I pregi di Cinquetti si conoscono: grande progressione, uno contro uno vincente, tiro e punizioni mortiferi, assist in gran numero.
Che difetti, invece, aveva?
“Dicevano che non marcavo il terzino. Ma chissà perché il mio terzino di riferimento non ha mai fatto gol. I casi sono due: o sono stato fortunato oppure il terzino era talmente preoccupato dal sottoscritto che non si azzardava ad affacciarsi in avanti. A guardare bene, però, un limite l’ho avuto”.
Quale?
“Mi sono sempre messo in secondo piano rispetto ad un compagno anche quando ero io il protagonista in questione. La ribalta non mi è mai piaciuta. Avrei dovuto essere più sfacciato, mai uno il carattere non se lo può cambiare”.
Nello spogliatoio parlava poco…
“Vero, non ero un tipo loquace, però il mio parere era ascoltato. Ero rispettato dai compagni”.
Da allenatore la soddisfazione migliore?
“Lo scudetto Giovanissimi col Rivazzurra il club della regione con il migliore settore giovanile. Erano gli anni Novanta. Decine di giocatori cresciuti lì sono arrivati fino al professionismo. A San Marino ho vinto il titolo italiano Juniores nel ‘96-‘97 nella stagione della promozione della prima squadra in serie D con Mazza. Con il Rimini nel 2010 ho perso la finale tricolore Berretti contro il Novara per 1-0 con rete a subita a 6” dalla fine dopo aver sfiorato in precedenza il gol con Kirilov”.
Non le è mancata una prima squadra?
“Ho allenato in D il San Marino (quarto e settimo posto), Bellaria e Lugo poi ho cominciato col club del Titano, a fronte di una buona offerta, la carriera nel settore giovanile che mi dà soddisfazione alla pari di una prima squadra”.
Una chance al Rimini l’avrebbe meritata, magari nell’era Grassi e non solo.
“Lo penso anche io, evidentemente non sono stato ritenuto all’altezza”.
Ha rimpianti?
“Da giocatore no, magari se fossi stato più fortunato con gli infortuni avrei potuto togliermi qualche soddisfazione in più. Ma va bene così”.
La sua filosofia di calcio?
“Cerco di insegnare un calcio aggressivo e propositivo, e quindi costruire l’azione fin dalla fase difensiva senza sparacchiare a caso. I ragazzi devono sapere cosa fare anche in fase di non possesso palla, in possesso capire quando è il caso di tenerla o passarla, di attaccare o difendere, i tempi dell’azione, come si marca e come ci si libera dalla marcatura”.
Il suo consiglio ai giovani calciatori?
“Passione e determinazione sono requisiti indispensabili per arrivare, ma anche giocare in categorie inferiori è gratificante per chi ha passione”.