Le allora indiscrezioni sull’eventuale nomina di Carlo Ancelotti a commissario tecnico del Brasile hanno fatto sfogliare gli almanacchi calcistici a molti giornalisti nostrani. Tv, quotidiani, pagine web, in quei giorni sono state piene di servizi e ricostruzioni riguardo agli allenatori italiani che in passato sono stati chiamati a guidare nazionali straniere. Da Alfredo Foni a Marco Rossi, passando per i vari Lippi, Trapattoni, Maldini senior, Capello, fino ai genoani Panucci e Scoglio, l’elenco è davvero molto lungo. Un nome però sembra sfuggire ai più ed è quello di colui che inaugurò questa tradizione: Filippo Felipe Pascucci.
Per conoscere la sua storia dobbiamo scorrere le pagine del calendario indietro di 90 anni. Bisogna risalire a prima dell’ultima guerra. Un’epoca in cui il calcio aveva chiuso la sua era pionieristica, cominciando ad assumere dimensioni globali e commerciali. I giocatori non erano più improvvisati atleti della domenica che si dilettavano a correre dietro ad un pallone, bensì professionisti veri, spesso chiamati a indossare divise molto lontane da quelle della propria città natale. Una metamorfosi acuita dalla nascita di un torneo che donerà l’immortalità, non solo sportiva, a Jules Rimet: la Coppa del Mondo. Una competizione per nazioni destinata a divenire sogno e ossessione dei calciofili di ogni latitudine.
Proprio per inseguire quel trofeo dorato raffigurante la Dea Alata sfuggita nella finale di Montevideo di quattro anni prima contro gli odiati cugini uruguagi, la federazione argentina decise nel 1934 di affidare la guida della propria Selección a un giovane genovese che nella terra delle pampas aveva trovato la sua America.
Sconosciuto o quasi in patria, Filippo (o meglio Felipe, come era stato ribattezzato nel Nuovo Mondo) Pascucci era diventato presto famosissimo in America Latina. Merito dei successi ottenuti con le squadre dilettantistiche locali. Con l’avvento del professionismo nei primi anni ’30 questo ragazzotto sbarcato a Buenos Aires direttamente dalla culla del calcio italiano, si era guadagnato la chiamata di un rampante club, fondato un quarto di secolo prima da alcuni suoi concittadini: il River Plate. L’esperienza sulla panchina dei futuri milionarios fu però estremamente fugace per Pascutti. Su suggerimento di Ernesto Malbec, alto papavero della federazione calcistica nazionale, i vertici dell’AFA si convinsero che l’entrenador genovés fosse l’uomo che faceva al loro caso. Ma non per le sue doti tattiche. Le intenzioni dei vertici federali erano in effetti altre. Il desiderio di migliorare lo status di vice-campioni del mondo non pareva turbare più di tanto i sonni dei dirigenti argentini. Qualcosa di angoscioso sostituiva nelle loro teste i legittimi sogni di gloria. Mandare i propri migliori talenti a disputare la Coppa del Mondo in Italia significava metterli in vetrina proprio di fronte a quelle squadre che da anni avevano preso il giro di far man bassa dei migliori campioni sudamericani. Il rischio, per la verità piuttosto concreto, era che molti di essi non facessero più ritorno in patria, seguendo l’esempio dei tanti colleghi che negli anni precedenti si erano fatti attrarre dagli ingaggi faraonici che i club europei erano in grado di garantire.
Alla luce della sua esperienza pregressa, la missione mondiale di Pascucci era dunque chiara. Il giovane italiano avrebbe dovuto portare con sé nella sua terra natia una formazione composta da giocatori provenienti dalle serie minori e da squadre di seconda fascia, anche per vendicare in qualche modo la mancata partecipazione dell’Italia al mondiale sudamericano di quattro anni prima. Quanto al campo l’unico obiettivo richiesto era quello di evitare figuracce. D’altronde l’Albiceleste era pur sempre la nazionale vicecampione del mondo in carica. E il pallone in Sudamerica era già divenuto un’icona laica, seconda per sacralità soltanto alla croce.
Ottenuta la qualificazione grazie alla rinuncia del Cile, che preferì non disputare neppure la doppia sfida di spareggio con i vicini di casa che garantiva il pass per la rassegna iridata, l’ Argentina si presentò alla Coppa del Mondo 1934 con un organico di 18 elementi composto in gran parte da giocatori di origine italiana, quasi del tutto sconosciuti perfino in patria. Nonostante l’ostentazione di sicurezza mostrata e ribadita ripetutamente alla vigilia da Pascucci il risultato fu una precoce quanto prevedibile eliminazione già al primo turno. Il 27 maggio, a Bologna, la modesta Svezia si impose 3-2 rimontando due volte il momentaneo vantaggio avversario. Neppure il mal comune di condividere la medesima sorte con gli acerrimi nemici brasiliani (a loro volta eliminati subito dall’Ungheria) risparmiò ai protagonisti della deludente spedizione italiana le feroci critiche dei patrioti. Pascucci divenne il bersaglio principale della stampa bairense, fungendo da capro espiatorio e da parafulmine delle discutibili decisioni federali. Si consolò con la conquista di un primato tutt’oggi imbattuto nella lunga storia dei mondiali. Con i suoi 26 anni di età Pascucci è il tecnico più giovane ad aver allenato una squadra nel più importante evento calcistico. Un record che, ovviamente, non servì per salvaguardargli il posto. La sua esperienza da commissario tecnico finì lì. Così come il suo esilio nell’emisfero australe.
Fiutata l’aria che tirava al di là dell’oceano, Pascucci non fece neppure rientro in Argentina, preferendo tornare nella sua Genova dove per tutti quegli anni erano rimaste a vivere la mamma e la sorella. Ribattezzato, per via del suo diploma in educazione fisica, il professore-allenatore, l’errabondo genovese ottenne presto un ingaggio sulla panchina della Sestrese e l’anno dopo divenne tecnico delle giovanili del grande Bologna, squadra di punta del calcio di allora. I suoi legami con l’Argentina tuttavia non si interruppero. Anzi, vennero da lui sfruttati per fornire consulenza alle società italiane sui talenti da portare in Serie A. Quasi una sorta di nemesi nei confronti di chi lo aveva esposto alla figuraccia del Mondiale 1934.
Negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale la sua carriera proseguì tra alti e bassi, alternandosi tra Sanremese, Liguria, Manlio Cavagnaro (denominazione nel frattempo assunta dalla Sestrese) e Asti. A conflitto terminato divenne per qualche mese collaboratore tecnico del Genoa, nel primo campionato post-bellico. Quindi passò Oltralpe, accettando la guida dell’Antibes. Il suo carattere non semplice lo fece però entrare prestissimo in contrasto con la dirigenza del club, limitando la sua esperienza francese ad appena una manciata di giorni. La sua storia da allenatore si chiuse nel 1953, dopo un paio di buone stagioni alla guida della ritrovata Sanremese in Serie C.
Lasciato il calcio, Pascucci non abbandonò il mondo dello sport. Un decennio più tardi entrò assieme ad alcuni ex dirigenti del Genoa nell’organigramma societario della Pro Recco, ieri come oggi autentica dominatrice della scena pallanuotistica internazionale, ricoprendo il ruolo di preparatore atletico. Anche grazie a lui un piccolo borgo di 6.000 anime salì sul tetto d’Europa, sbaragliando le maggiori potenze del continente. Il 18 dicembre 1966, mentre con la squadra biancoceleste si trovava a bordo dell’aereo che lo riportava in Italia dopo la trasferta di Coppa dei Campioni in casa della Dinamo Zagabria, Pascucci fu colpito da un collasso cardiaco. Ogni tentativo di salvargli la vita fu inutile. Si spense così, in mezzo alle nuvole e ad appena 59 anni, l’avventurosa esistenza del primo italiano divenuto commissario tecnico all’estero.