Quando decideva di scendere in campo, Berlusconi era abituato a prendere il pallone e a non ridarlo più indietro. Rientrava nel carattere del personaggio. Del Milan è stato il presidente, l’uomo che ha dettato la linea, che ha suggerito (ordinato) gli acquisti, ma si è spesso seduto in panchina (metaforicamente) e ha compilato le formazioni. In fondo lui si è sempre considerato un allenatore e il sabato, nella sala del camino di Milanello, teneva lezione ai giornalisti su questo o su quel modulo, su questa o su quella tattica. Il suo rapporto con i tecnici del Milan, e ultimamente del Monza, è sempre stato diretto, schietto: lui diceva e loro dovevano eseguire, punto e stop.
Non potendo attingere agli archivi per quanto riguarda l’esperienza di allenatore all’Edilnord, anche perché di quel periodo (non solo a livello calcistico) è sparito quasi tutto, si può soltanto ricordare, ascoltando le memorie di chi c’era, che i primi due nomi eccellenti silurati da Berlusconi furono Marcello Dell’Utri e Vittorio Zucconi. Entrambi allenatori della squadretta che lui aveva fatto trasferire dall’oratorio dell’Opus Dei a Brugherio, poiché il padrone non era contento dei risultati, vennero esonerati in tronco: rimasero come giocatori. Zucconi ne scrisse, anche se poche e trascurabili righe, e Berlusconi non la prese benissimo. Dell’Utri, che era muto come un pesce anche sessant’anni fa, non disse mai nulla e si guadagnò l’immunità. Gli altri giocatori mai si espressero, preferirono ricordare le serate conviviali, le partite, i successi. Nessuna polemica, però.
Dopo ci fu l’avventura con il Milan e l’invadenza dell’allora cavaliere fu molto più evidente. A cominciare dall’esonero di Nils Liedholm nel 1987 e dall’ingaggio di Arrigo Sacchi, il Signor Nessuno che diventò il Profeta di Fusignano. Poiché le cose non funzionavano per il verso giusto, nei primi mesi dell’avventura sacchiana, Berlusconi intervenne a gamba tesa: convocò tutti, giocatori e tecnico nel suo ufficio, non li fece nemmeno accomodare e, con il piglio del capitano d’industria, disse: “Sacchi è l’allenatore che ho scelto io e rimarrà anche il prossimo anno. Di voi, invece, non so chi resterà. Buon lavoro”. Il solco era tracciato, il resto appartiene alla storia del calcio con la vittoria dello scudetto, delle Coppe dei Campioni, delle Coppe Intercontinentali e via dicendo. Con Sacchi, a parte quel famoso discorsetto, mai uno screzio e mai una divergenza.
E nemmeno con il suo successore Fabio Capello, prelevato dagli uffici della Fininvest e sistemato in panchina, anche in quel caso per dimostrare che le idee del padrone non solo erano sacre, ma pure buone. Una curiosità: poiché Berlusconi sapeva che Capello, nella primavera del 1996, aveva firmato con il Parma e temeva che gli emiliani diventassero una seria concorrente per lo scudetto, fece di tutto per dirottare Don Fabio sulla panchina del Real Madrid. Fino ad allora, però, era stato un Milan vincente. Grazie al calcio Berlusconi aveva conquistato il pubblico non solo italiano, ma addirittura mondiale. I problemi vennero più tardi quando Berlusconi, impegnato in politica, non potè sempre occuparsi direttamente della squadra. E allora, ritrovatosi Óscar Washington Tabárez come allenatore, lo bollò come “un tipo da Sanremo” e qualche anno dopo, nonostante gli avesse consegnato lo scudetto del centenario nel 1999, fu Alberto Zaccheroni a finire tra le vittime. “Un sarto che può rovinare una buona stoffa” disse Berlusconi, e quella fu una sentenza. Non sopportava il modo di giocare del Milan, la difesa a tre e il tridente che sbilanciava troppo, a suo avviso, la squadra. Impose, è proprio il caso di usare questo termine, l’impiego di Boban come trequartista e, a corredare l’ordine, aggiunse che il Milan doveva schierarsi con quattro difensori, tre centrocampisti, una mezzapunta e due attaccanti. Il giocattolo era suo e bisognava fare come diceva lui.
Stessa musica quando sulla panchina arrivò Carletto Ancelotti. Soltanto che Carletto, a differenza dei predecessori, aveva un vantaggio: la furbizia. Lasciava parlare Berlusconi, gli faceva credere di seguire i suoi diktat e poi puntualmente li modificava. Siccome Carletto vinceva, il cavaliere non si sognava di criticarlo e giunse al punto che, pur di dimostrare che il padrone era lui e la sua voce doveva essere forte e chiara, andò in televisione, sempre nel salotto di Bruno Vespa, e mostrò a tutt’Italia gli schemi che avevano consentito al Milan di vincere la finale di Champions League di Manchester nel 2003. Che quegli schemi fossero stati disegnati dalla mano di Ancelotti, grafia inconfondibile, poco importava: lui se ne appropriò e spiegò al popolo che, oltre a essere un presidente-operaio, un presidente-imprenditore, un presidente-padre di famiglia, era anche un presidente-allenatore.
Innamorato dei fantasisti volle a tutti i costi portare al Milan il declinante Ronaldinho. Poco gl’importava che Ancelotti avesse sconsigliato l’acquisto: Berlusconi voleva lo spettacolo e Dinho lo avrebbe regalato al pubblico di San Siro. Un decennio prima era stato Dejan Savićević il pomo della discordia tra il presidente e Fabio Capello, che relegava il talento montenegrino sulla fascia sinistra. Anche in questa occasione, c’è bisogno di dirlo?, Berlusconi vinse la partita. Persino nell’epoca declinante della sua presidenza, cioè dal 2011 in poi, fece sempre sentire la sua voce quando si accorgeva che le cose non funzionavano per il verso giusto.
Quante critiche a Leonardo, ad Allegri, al suo pupillo Inzaghi, a Mihajlovic, a Seedorf. Non ha mai risparmiato nessuno, convinto che la sua visione del calcio fosse quella giusta e da quella non ci potesse allontanare. Vincere e convincere, ripeteva. La squadra, per lui, era un’azienda e come un’azienda doveva funzionare: produrre beni di consumo (nello specifico la felicità del pubblico) ed essere sempre governata da una sola testa. La sua.