Giocatore intelligente, testa, cuore e corsa. Mimmo Caso è stato tutto questo. Da allenatore ha fatto sbocciare giocatori del calibro di Nesta e Di Vaio, per citarne due e ha fatto vedere un ottimo calcio.
È stato un peccato che non abbia continuato come mister, perché per quel che ci aveva fatto vedere con Foggia, Lazio e Chievo era molto promettente, ma il calcio a volte è una chimica strana.
Da giocatore Mimmo Caso da Eboli ha vestito le maglie di diversi importanti club. Con l’ Inter ha vinto uno scudetto nel 1980 e con la Lazio è stato il capitano della stagione nella quale la squadra partì penalizzata d 9 punti per poi salvarsi miracolosamente.
Nell’ordine, da sinistra: Caso nella Fiorentina, nel Napoli e nel Perugia
La Fiorentina, dove sei cresciuto, il Napoli, il Toro ed il Perugia son state importanti per motivi diversi nel tuo percorso, ma l’Inter e la Lazio sono le società dove le tifoserie si sono più affezionate e forse dove si è visto il miglior Caso?
“Son state tutte esperienze importanti di crescita, ovviamente con qualche picco in alcune società, un po’ come succede a tutti. Probabilmente con Lazio ed Inter c’è stata una chimica particolare, un’ identificazione maggiore, senza però tralasciare le altre avventure, tutte di crescita umana e professionale”.
Il rapporto con Bersellini nell’Inter e lo scudetto nerazzurro del 1980
Lazio anno 1986: meno 9 in partenza ..
“Fu durissima. Ero il capitano di quella squadra ed ho cementato il legame che ancora oggi ho con la maglia biancoceleste e la sua tifoseria. Arrivavo da una stagione al Toro dove avevamo ottenuto un ottimo secondo posto con Gigi Radice allenatore, nell’anno dello scudetto vinto dal Verona di Osvaldo Bagnoli. Mi dissero che mi voleva Giorgio Chinaglia alla Lazio. Io, che ero un suo ammiratore, fui onorato che mi volesse con sé. Chinaglia era troppo buono con tutti. Giorgio non poteva fare il proprietario e la società ebbe grossi problemi economici. Dovette lasciare il club e ci trovammo in una situazione molto complessa. La stagione 1986 iniziò con un meno nove di partenza a causa di un coinvolgimento nel calcio scommesse, ma alla fine quella stagione faticosa fu un trionfo”.
L’allenatore era Fascetti?
“Sì, l’allenatore era Fascetti. Prima di iniziare la stagione ci chiuse tutti in una stanza e ci disse: ‘Lì c’è la porta, chi non se la sente vada via ora’. Rimanemmo tutti, l’ ambiente si compattò. Fu una cavalcata sofferta ma bellissima. C’erano i due punti a vittoria, per cui partire da meno nove significava avere cinque partite in meno”.
Fu come vincere uno scudetto?
“Per capirsi meglio racconto questo: recentemente la società Lazio ha fatto un triangolare invitando le tre formazioni che han dato maggiori soddisfazioni ai tifosi.
Le tre squadre biancoazzurre erano: quella di mister Tommaso Maestrelli, quella di mister Eriksson e quella del meno nove di mister Fascetti”.
Nel Torino (a sinistra) e nella Lazio
Passiamo all’Inter. Sei stato amatissimo e lo sei ancora dal pubblico nerazzurro.
“L’ Inter è stato un successo. Mi volle Eugenio Bersellini. Arrivavo da una stagione così così a Napoli e Bersellini mi chiese di giocare non da esterno, dove aveva già Beppe Baresi e Giancarlo Pasinato, ma da interno di regia. Andai molto bene, cambiai ruolo, ma giocai anche da esterno quando c’era bisogno. Sono sempre stato un giocatore duttile. Con la maglia nerazzurra furono due anni memorabili grazie anche allo scudetto del 1980. Una squadra di uomini fantastici prima che campioni. Ricordo che, dopo due giorni di ritiro, vedendo la qualità e serietà del gruppo, avevo la sensazione si potesse veramente fare molto bene”.
Eugenio Bersellini fu quindi fondamentale per te Mimmo?
“Il mister era un uomo fantastico e mi volle anche al Toro più avanti. Lo porto sempre nel cuore. Sono molto legato alla famiglia Bersellini e sarò sempre grato ad Eugenio”.
Come mai dopo 58 presenze su 60 in due anni, dall’Inter andasti al Perugia in serie B?
“La dirigenza voleva Salvatore Bagni dal Perugia e in quegli anni non si poteva rifiutare, per cui dovetti andare. Ho saputo in seguito che mister Bersellini voleva cambiare e giocare a zona. Per cui chiese alla società di prendere Bruno Pezzey, il nazionale austriaco che come me era adatto a fare quel tipo di gioco. Invece arrivò Salvatore Bagni al posto dell’austriaco ed io andai a Perugia. Sono cose di calcio che succedono, andò così e poco dopo anche mister Bersellini andò via. Io dell’Inter ho solo ricordi belli e sarò sempre grato d’aver vestito quella gloriosa maglia facendo parte di un gruppo di persone magnifiche con le quali ancora oggi ci si vede con molto piacere”.
Capitano nella “Lazio del meno nove” di mister Eugenio Fascetti
Parliamo dell’allenatore Mimmo Caso.
“La mia fortuna è stata quella di essere stato a Foggia subito dopo Zeman. A Foggia mi volle Giovanni Galli, persona splendida con cui avevo giocato a Firenze. Giovanni era il direttore sportivo della squadra rossonera. Il Foggia arrivava dall’allenatore boemo Zeman ed io avevo proseguito il suo percorso. Squadra giovane e modulo 4-3-3 di zemaniana memoria. Fu una stagione bellissima: a San Siro abbiamo quasi buttato fuori l’Inter dalla coppa Italia. Quella era l’Inter di Luigi Simoni allenatore e del Fenomeno Ronaldo in campo. Avevamo giocatori come Di Michele, Roma e altri giovani valorosi, giocammo benissimo, ma uscimmo immeritatamente, tra gli applausi dei tifosi”.
Il tuo rapporto con Zeman?
“Posso solo parlare benissimo di lui. Un uomo tutto d’un pezzo. Le sue idee erano illuminanti. Ti faceva faticare tanto ma poi tutto tornava con gli interessi. Il tecnico boemo ha sempre pagato per non essersi allineato a posizioni che non condivideva facendo della coerenza uno stile di vita. Zeman non ha dipendenze da nessuno è un uomo libero con una dignità fuori discussione. A me è sempre piaciuto perchè anche io sono così”
Per concludere sei spesso impegnato in eventi legati al sociale.
“Quando allenavo i giovani calciatori spesso dicevo loro che siamo gente fortunata e che aiutare chi è più svantaggiato di noi e soffre dovrebbe essere la normalità. Ho cercato di far capire ai giovani di essere prima uomini poi giocatori. Ho sempre invitato i ragazzi a fare una riflessione quando passano davanti ad un ospedale, ad un carcere, a ovunque ci sia gente che soffre. Io sono andato via di casa a quattordici anni e certi valori me li ha insegnati prima la famiglia poi il calcio. Questo non lo dimenticherò mai e cercherò sempre di trasmetterlo agli altri”.
Flavio Ciasca