Paulo Roberto Falcão è nato a Xanxerè, in Brasile, il 16 ottobre del 1953. Era alto 183 cm. e pesava 71 kg. Fu acquistato dalla Roma dopo aver militato nell’Internacional di Porto Alegre dal 1973 al 1979. In giallorosso ha giocato dal 1980 al 1985 diventando uno dei più grandi fuoriclasse in assoluto non soltanto della storia della Roma, ma di quella dell’intero calcio mondiale. Nella Roma ha collezionato 107 presenze e segnato 22 gol. Ha vinto uno Scudetto nella stagione 1982-‘83 e 2 Coppe Italia, nel 1980-‘81 e nel 1983-‘84. Sempre nel 1983-‘84 fu protagonista nel bene e nel male della storica finale di Coppa dei Campioni giocatasi a Roma contro il Liverpool e persa dai giallorossi ai calci di rigore. Falcão si rifiutò in quell’occasione di battere un penalty e questo gli costò un fiume di critiche ancora oggi mai sopite. Falcão fu e rimase sempre Falcão. Il campione brasiliano ha lasciato segni evidenti e indelebili della sua magnifica presenza calcistica nella Capitale.
È stato un fuoriclasse importante, di quelli che non si dimenticano più. Tra i pochi capaci di entrare nel cuore dei tifosi senza mai più uscirne. Il “divino”, per molti analisti, fu giocatore irripetibile. In campo era “leader” e condottiero. Autorevole, imperioso e fiero come un sovrano. Fu soprannominato pure “l’Ottavo Re di Roma” e non a caso. Falcão in campo “comandava”. Fungeva da “calamita”. Attirava attorno a sé i compagni di squadra e li faceva giocare da campioni, da squadra. La sua Roma, la grande Roma di quel tempo, ruotava attorno a lui.
Che fosse un leader carismatico e orgoglioso te ne rendevi subito conto non appena lo vedevi giocare. Non appena te lo trovavi di fronte. Testa alta, elegante, impavido. Forte nei contrasti e signorile nei movimenti. Regista impeccabile. Mediano eccellente. Lucido nei dribbling ti piazzava la palla dove tu volevi, o in testa o tra i piedi.
Dai suoi piedi scaturiva una luce indescrivibile, per certi versi magica. Non era facile arginarne l’impeto e la favolosa creatività. Determinato e carismatico anche fuori dal campo Falcão “imponeva” a tutti la sua legge. All’Olimpico ci “lasciavi le penne” spesso e volentieri.
Quello stadio era un’arena e i giallorossi i gladiatori guidati dai un guerriero formidabile e mai arrendevole: Paulo Roberto Falcão. Respiravi la sua forza ovunque lui si esprimesse. In qualunque zona del campo si trovasse. Falcão è stato la Roma. Ne ha incarnato l’anima, l’essenza, la voglia di primeggiare e di giocare al calcio. Il fuoriclasse brasiliano è stato l’esempio vivente di come una squadra possa rispecchiarsi per intero nel suo leader. Era la Roma di Nils Liedholm, il grande “barone” promotore di un calcio sobrio, flemmatico, elegante ma vincente. Liedholm ha lasciato il segno ovunque abbia allenato.
Milan e Roma soprattutto. Falcãoera il suo “alter ego” in campo. Quando il grande Nils lo vide giocare per la prima volta esclamò una frase tanto bella quanto eloquente e per molti versi “fotografica”: “Gran giocatore -disse il Barone parlando di Falcão – usa i piedi come le mani”. Falcão assorbiva agli insegnamenti di Liedholm e li traduceva in calcio, in giocate meravigliose, in vittorie. Era la mente e il braccio di una squadra fortissima e leggendaria. Era la squadra di Turone e di Nela, di Giannini e di Bruno Conti, di Pruzzo e Tovalieri. Era anche la Roma del grande e compianto Agostino Di Bartolomei, capitano serio e nostalgico. Era davvero una grande Roma.
Una Roma destinata a diventare “storica”, a lasciare il segno nel firmamento del calcio. Nessuno ha mai ben compreso come questo brasiliano atipico e abbastanza europeo potesse giocare al calcio come un direttore d’orchestra motiva e dirige i suoi musicisti. Falcão fu questo. Fu il leader incontrastato di quella fantastica squadra. Quella squadra che Falcão sentiva come sua e che dirigeva da par suo. Con lui in campo la bellezza prendeva forma. Con lui in campo ogni calciatore romanista si trasformava in campione, diventava più forte, più bello tecnicamente, più consapevole dei suoi mezzi. Con Falcão accanto si diventava calciatori. I suoi compagni, in partita, sui specchiavano i lui, seguivano i suoi tempi, i suoi ritmi quella precisa idea di calcio che fu di Liedholm prima e di Falcão poi. Nessuno come Falcão riusciva a governare il baricentro di quella Roma.
Una squadra che si muoveva per blocchi ma mettendo sempre al centro del gioco il suo grande fuoriclasse. Nessuno potrà mai dimenticare la sua grinta, la sua forza, quella irruenza che imperversava e trascinava tutti, pure le folle. Quelle movenze eleganti e poetiche che davano corpo e sostanza ad un incedere colto e sapiente. Come dire: “Mi chiamo Falcão, inchinatevi e rendetemi la mano voi che scendete in campo”. Falcão ha giocato la sua ultima partita in giallorosso il 16 dicembre 1984 contro il Napoli segnando per altro la rete decisiva.
Il pallone racconta che Falcão lasciò la sua Roma soprattutto a causa dei contrasti ogni giorno sempre più marcati con l’allora presidente Dino Viola. Viola fu un presidente importante, il presidente del secondo Scudetto romanista, ma fu anche il dirigente che avallò la cessione di Falcão. Il presidente il cui nome rimane legato al palmarès della squadra ma anche alla cessione del fuoriclasse brasiliano. Falcão fu centrocampista completo e totale. Regista, mediano, mezzala. Eccelleva in tutto. Vederlo impostare l’azione con quel numero 5 stampigliato nella maglietta e con quell’incedere fiero, autoritario e ostinato era spettacolo unico che da solo valeva già il prezzo del biglietto. Ricamava in campo le traiettorie più impensabili. Era forte di testa tanto quanto di piede. Se andava in area di rigore era solo per fare gol. Lui il gol lo intuiva, lo respirava, lo disegnava con la creatività e la delicatezza tipica dei grandi artisti del Novecento.
Per molti fu il “Divino” e “l’Ottavo Re di Roma”. Per noi fu l’ “Herbert von Karajan” di quella magnifica formazione. Due geni dell’arte che in comune avevano l’amore per il proprio lavoro abbinata ad una grande creatività, alla capacita di far nascere qualcosa di inaspettato e leggendario dall’alchimia tra sentimenti e musicalità. Entrambi grandi direttori d’orchestra. Von Karajan fu considerato tra i più grandi a livello planetario. Il brasiliano tra i più grandi a livello … calcistico. La Juventus fu il “nemico” sportivo per antonomasia. Epiche e combattute fino allo stremo tutte le partite che Falcão giocò contro i bianconeri. Falcão da un lato, Platini dall’altro. Partite bellissime e mai sfiorate dal caso.
Roma-Juventus del 10 maggio 1981 non la dimenticherà mai nessuno. Fu la partita dell’indimenticabile gol di Ramon Turone annullato per un fuorigioco di cui ancora adesso si parla. Fu la partita che una volta vinta avrebbe con ogni probabilità consegnato alla Roma il suo secondo Scudetto in anticipo rispetto alla stagione 1982-‘83. Fu il primo campionato in Italia di Paulo Roberto Falcão. In quella partita venne fuori tutta la straordinaria essenza di un fuoriclasse irripetibile. Falcão dimostrò d’essere un calciatore unico e universale, uno dei pochi capaci di cambiare il volto di una compagine intera. Trasmise alla Roma la giusta cattiveria e l’indispensabile grinta per farsi rispettare da tutti sempre e comunque. La Roma fu Roma grazie all’estro, alla forza e alla genialità del grande Paulo Roberto Falcão.