La vita, a volte, è come un giocattolo strano: liscio, levigato, lo giri e lo rigiri tra le dita per cercare di capirne il senso e le più acconce modalità d’uso. E magari non t’accorgi che può pure sfuggirti di mano all’improvviso, mandandosi in mille frantumi d’impossibilità. Maurizio Iorio ha cominciato ben presto a fare i conti con le regole del gioco, prima ancora che la già lunga e variegata carriera che si ritrova alle spalle ad appena ventiquattro anni ne mostrasse in tutta efficacia la corda di uomo vero, di professionista indomabile, capace di cadere e risorgere come solo i campioni sanno fare. Era bambino e giocava a calcio nella Milano del boom economico, la città tentacolare cui i suoi genitori erano approdati emigrando dal profondo sud – lui napoletano, lei irpina – per tessere trame più solide sull’ordito incerto dell’avvenire, per costruire un futuro meno sdrucciolevole sotto i piedi di quel figlio che sarebbe nato e avrebbe potuto anche essere – perché no – un calciatore: i coniugi Iorio si erano infatti sistemati in periferia, a duecento metri da San Siro, quasi che il sangue già istintivamente avvertisse il fascino indiscreto di quel catino ogni domenica ribollente di tifo e calcio di lusso.
Giocava bambino, si diceva, ed era già il piccolo idolo della squadra del bar sotto casa, intitolata “H.H. Triestina” in omaggio al mago allora imperante a poca distanza. Il frugoletto faceva impazzire il pallone e gli avversari, tanto che arrivarono prestissimo i provini in serie per grandi squadre. Le prime spine di una rosa che avrebbe brillato un giorno di intensi colori.
“Provai per parecchie squadre – ricorda – col Bologna, con la Fiorentina, ma soprattutto col Milan: ricordo ancora la partitella a Milanello, che praticamente smisi di giocare davvero quando vidi arrivare, in carne ed ossa, il mio idolo Rivera. Rimanevo a guardarlo, e gli sarei corso dietro per avere un autografo. Comunque per il calcio niente da fare. La risposta era ogni volta la stessa: sì, bravino, ma non ha il fisico”. Finì al Vigevano, dove trovò l’allenatore giusto (il “mister” Colli, che ancora ricorda con gratitudine) per mimare il calcio dei grandi e proporsi all’esordio in Serie C a soli sedici anni. Poi fu subito Foggia e il duro impatto con la realtà. “Mi trovai ragazzino sbalzato a mille chilometri da casa: vivevamo praticamente in un albergo, l’Hotel Florio, a metà strada tra San Severo e Foggia. Un unico pullman per la città passava alle cinque e dieci del pomeriggio: se lo perdevi restavi confinato in quel deserto tutto il giorno. Ad un certo punto mi sentii talmente solo da pensare di piantare tutto e tornarmene a casa. Ma il calcio ebbe la meglio, e l’anno dopo, con l’esordio in Serie A a diciotto anni – sei gol in ventun partite – vinsi la mia prima battaglia”.
Ce ne sarebbero state altre, e non tutte facili. La carriera si impennò, alla fine di quell’anno, verso i cieli granata del Torino, a far da “terzo” dietro i gemelli Graziani e Pulici: ma la stagione se ne andò persa, tra panchina e incomprensioni. “Fu un cambiamento troppo brusco per me – spiega – certo non ero ancora maturo per una squadra di quel rango. Ero un ragazzino, mi trovai in un ambiente stranamente freddo rispetto a quello di Foggia; Radice non parlava molto con i giovani, il clima dello spogliatoio già stava guastandosi e io avevo la testa non ancora del tutto a posto, e commisi i miei bravi errori di gioventù”. Ad Ascoli, il campionato successivo, ricominciò da capo. “E qui – afferma convinto – non mi riconosco nessuna colpa, a differenza di Torino. C’era un allenatore molto bravo sul piano tecnico, G.B. Fabbri, che mi diceva che ero grande, che potevo diventare un nuovo Rossi, ma alla domenica non mi faceva giocare, non so se per scarso polso verso certe pressioni o se per altri motivi. So solo che alla fine dell’anno fui contento che fosse finita, dopo tante delusioni. L’esperienza però mi aveva bruciato”. A ventun anni, il saliscendi della vita già sperimentato bruscamente, col pericolo di non essere più capace di uscire dal labirinto. E invece no.
“I due anni di Bari, in B, che seguirono – racconta – furono preziosi. Trovai l’ambiente ideale, gente che mi considerava al massimo come giocatore e come uomo, un presidente, Matarrese, che era un fratello e un allenatore straordinario, Catuzzi, pronto a responsabilizzare noi giovani, a farci sentire uomini e non bambini da balia”.
Il gioco brilla, i gol arrivano a raffica, il calcio italiano recupera faticosamente un aspirante big. Alla fine del primo anno incontra Dina, due anni più di lui, occhi azzurri, un sorriso intenso e la personalità giusta per completare Maurizio e maturarlo fino in fondo. Da allora non si sono più lasciati, Maurizio e Dina, la sua compagna, Maurizio e il successo, il suo destino.
Ed è subito Roma, Liedholm e lo scudetto. “È stata una esperienza enorme, anche sul piano tecnico. Prima ero solo un centravanti che sapeva giocare ma che ‘lavorava’ soprattutto al centro dell’area. Con Liedholm, che voleva giocassi largo per far spazio a Pruzzo unica punta centrale, scambiandomi sulla fascia con Bruno Conti, dimostrai a tutti di essere un attaccante completo. Dovevo anche rientrare, coprendo le avanzate di Maldera, e scoprii di sapermi disimpegnare in ogni zona del campo. In questa sua capacità di trarre da ognuno il meglio l’allenatore svedese è un vero maestro. Ha un solo difetto: per carattere parla poco con i calciatori. Per tutto il resto è l’allenatore ideale”. Eppure, a fine stagione, neanche il sogno tricolore infrange la realtà di una carriera a trasferimento continuo. “lo non mi sento inferiore a nessuno – spiega – né ho paura di lottare per conquistarmi il posto: visto però che arrivavano Graziani e Vincenzi, capii che non avremmo lottato ad armi pari e chiesi chiaro e tondo di essere ceduto”.
“Con Verona – continua – credo di avere toccato tutti gli ambienti possibili del mondo del pallone. Dalla notte al giorno, per dire, rispetto a Bari e Roma. Qui la partita finisce al fischio dell’arbitro, non si parla di calcio, la gente per strada ti riconosce ma fa finta di niente. È una medaglia a due facce: il Iato positivo è che hai la tua vita privata, piena e intera, al riparo da tutto e da tutti, e questo è prezioso; quello negativo è che c’è meno calore attorno per caricarti a dovere. In questo l’esperienza pugliese rimane per me indimenticabile: tifosi che ti facevano sentire sempre un big, obbligato a dare il massimo per non deluderli”.
Verona e il Verona, una città, una squadra, un grande campionato. “La città – Maurizio racconta a briglia sciolta, si apre senza problemi, con la lieve inflessione milanese e la cordialità propria di chi sa essere campione, di stile e umanità, anche fuori dal campo – è semplicemente stupenda: unisce la straordinaria bellezza che trovi, per paragone, a Roma, con una misura d’uomo che non c’è nella capitale; là tutto è immenso, irraggiungibile, per andare a trovare il mio amico Maldera mi toccava viaggiare per un’ora in auto, mentre qui gIi amici, il cinema, il campo sono a portata, a pochi metri. La società è di una serietà completa, l’armonia regnava sovrana anche prima che cominciassimo a fare i grandi risultati, l’allenatore, beh, su Bagnoli dico una cosa sola: se se ne va come qualcuno va dicendo, spero solo che mi porti con se’”.
“Sono già centravanti della Nazionale Olimpica, e Bearzot ha detto che nella sua lista per una terza o quarta punta ci sono anche io. Dovessi entrare nei ventidue per il Messico ’86 credo che raggiungerei l’apice per la mia carriera. Credo di avere le mie chances…”. Il sogno mondiale però non si concretizza.
Il declino: il ritorno a Roma, poi Fiorentina, Brescia, Piacenza, ancora Verona, Inter e Genoa. Solo brevi apparizioni, anche se – terza scelta dopo Tomáš Skuhravý e Carlos Aguilera, – disputando la semifinale di ritorno di Coppa UEFA contro l’Ajax, realizza il gol del momentaneo vantaggio del Grifone.
Fonte Storie di Calcio