La prima volta non si scorda mai. Il 14 settembre 1986, Silvio Berlusconi inizia la sua prima stagione in serie A da presidente del Milan. Ci sono 60 mila spettatori a San Siro per assistere all’inizio di un’epoca, contro l’Ascoli appena promosso dalla B. Il centravanti dei marchigiani è un bomber di provincia e di serie minori, che di treni per grandi destinazioni ne ha visti passare due, e non ci è mai salito. Non ha mai giocato in serie A prima. Ma quel giorno Massimo Barbuti fa la storia.
Berlusconi in realtà è stato nominato presidente qualche mese prima, il 24 marzo. Ha preso la squadra sull’orlo del fallimento da Giussy Farina, che da presidente del Vicenza non volle pagare l’ingaggio completo per il prestito di Agostino Di Bartolomei, salvo poi riaccoglierlo con tutti gli onori al Milan, voluto da Nils Liedholm. C’è ancora lo svedese in panchina, c’è ancora “Ago” in mezzo al campo, per la sua ultima stagione in serie A. In estate però, Berlusconi ha cominciato a dar forma alla sua visione. Arrivano Donadoni, Bonetti, Galderisi, Massaro e Galli.
Si affacciano alla prima squadra Evani, Maldini, Baresi. Mettere insieme i diversi gruppi è difficile, anche per il Barone Liedholm, che fatica a nutrire i sogni di gloria del nuovo presidente, che si presenta all’inizio della stagione 1986 in elicottero mentre risuona la Cavalcata delle Valchirie e Cesare Cadeo scandisce la cerimonia.
“La squadra si trovò a Linate senza rendersi conto di quello che stava accadendo” ricorda Baresi. “Ci presero in giro, ma con gli elicotteri il presidente dimostrò subito la voglia di stupire. E noi capimmo che il vento era cambiato. A Milanello disse che saremmo dovuti diventare la squadra più forte d’Italia, d’Europa e del mondo. Ci guardavamo negli occhi e non ci volevamo credere: da anni il massimo era raggiungere la coppa Uefa”.
L’Ascoli ambisce al massimo a salvarsi. Affronta il suo decimo campionato di serie A con otto undicesimi della squadra che ha dominato il campionato cadetto con Vujadin Boskov in panchina. Il tecnico però ha lasciato, e in panchina viene promosso il suo vice, Aldo Sensibile, alla prima esperienza da allenatore in serie A. Durerà due mesi. A novembre arriverà Ilario Castagner, in tempo per vincere il terzo e ultimo trofeo nella storia del club, la Mitropa Cup, ridotta ormai a un quadrangolare ospitato quell’anno proprio ad Ascoli e risolto, nella finale contro il Bohemians Praga, da un rigore di Bonomi.
In estate arrivano il jolly Pusceddu, in prestito dal Torino e lo stopper Agabitini dalla Maceratese, torna il centrocampista Pino Greco dopo l’esilio volontario tra i dilettanti. Ma il vero colpo è Liam Brady, che ha scelto Ascoli per dire addio all’Italia prima di tornare in Inghilterra a chiudere la carriera. E debutta da capitano di provincia proprio in quella Milano dove ha ancora delle rivincite da prendersi per i suoi anni all’Inter.
E in nerazzurro avrebbe dovuto giocare anche Massimo Barbuti. Il presidente Ernesto Pellegrini lo vuole come terzo attaccante, dietro Altobelli e Rummenigge. Rozzi però, il presidente dai calzettoni rossi e dall’impermeabile “modello tenente Colombo”, non vuole privarsi del bomber che li ha riportati in A con 15 gol: chiede tre miliardi e l’Inter vira su Garlini. Barbuti non la prende bene, chiede un aumento di stipendio e lascia anche il ritiro.
Sembra concreta l’ipotesi di uno scambio con Rideout del Bari, ma la situazione rientra. Già nel 1979, quando giocava a La Spezia e i tifosi lo chiamavano “Bietolone”, Barbuti era andato a La Coruna a giocare un torneo amichevole: allora lo voleva il Barcellona, ma rifiutò l’occasione di passare alla storia come il primo italiano di sempre in maglia blaugrana.
Preferirà Taranto, poi Parma. Frenato da un’appendicite che lo costringe a saltare la preparazione al primo anno, riporta i gialloblù in serie B, vive anche l’immediata retrocessione in C, e diventa un idolo dei tifosi, che gli dedicano anche un murales.
Non solo perché segna tanto, ma sopratutto per quella sua tipica esultanza liberatoria, osmotica: Barbuti va a prendersi l’abbraccio dei tifosi, si aggrappa alla rete che divide il campo dalla curva. E un giorno, contro la Carrarese, la recinzione viene giù. E non è una metafora.
Vuole fare le cose in grande quel giorno, Barbuti. “Me lo sentivo” ha raccontato. “Un presentimento che nasce dalla voglia di dimostrare a tutti che la serie A l’avevo meritata, conquistata da solo partendo dalla parrocchia del mio paese quando, tra il disappunto del prete, piazzavo pali e traverse davanti alla porta della chiesa e mi allenavo a tirare. Giocare al Santiago Bernabeu, a Wembley o a San Siro per me era lo stesso. Avevo una carica tale che niente e nessuno mi avrebbero fermato”. Finalmente il momento arriva. I giocatori si affacciano sul campo per l’inizio della nuova stagione. “Alzai gli occhi e per la prima volta in carriera non vidi il cielo. Sopra di me una muraglia umana di persone”. Il Milan preme da subito. Liedholm ha scelto Evani, ha tenuto Di Bartolomei in panchina e spostato più indietro Wilkins. L’Ascoli si chiude, Benedetti controlla Hateley e il portiere Corti pare insuperabile. Tutto il gioco dell’Ascoli ruota intorno a Brady. Accanto a lui si muovono i motorini Bonomi, Iachini e Trifunovic.
Al 18′ i marchigiani tremano: traversa di Virdis. Passa un minuto, e Brady recupera un pallone a centrocampo. Col suo perfetto sinistro lancia Barbuti. La palla viaggia verso la bandierina, oltre il vertice destro dell’area. “Baresi è in anticipo, ma io, sull’esterno, al secondo rimbalzo da posizione angolatissima non ci penso su due volte e tiro in porta. Come facevo da bimbo sul sagrato della chiesa. Presi la palla di collo pieno mentre calava con tutta la forza che avevo” racconta l’attaccante. “Ero fuori di alcuni metri” ammette il portiere Giovanni Galli, “e Barbuti ha cercato di fare un tiro cross, ma il pallone ha sfiorato la traversa e si è infilato nell’angolino basso. Mi sono tuffato, ma non c’è stato nulla da fare”.
La ripresa è un assedio del Milan. Liedholm torna all’antico e si affida a Di Bartolomei. Il portiere dell’Ascoli, Corti, deve uscire all’intervallo: dentro Pazzagli, che anni dopo passerà proprio al Milan, e che quel giorno si esalta sulla punizione potente dell’ex capitano della Roma e sul colpo di testa di Virdis, prima della provvidenziale uscita bassa su Hateley. Il Milan chiede il rigore, l’arbitro fa proseguire, e i sogni del Milan si spengono.
Quel gol frutta a Massimo Barbuti otto milioni, il premio partita pagato dall’incredulo e felice presidente Rozzi. Il giorno dopo i titoli dei giornali sono tutti per lui. Nelle Marche, le finestre sono tutte addobbate con bandiere bianconere per il giorno di gloria di un bomber di provincia, che chiude il suo primo e unico anno di serie A con un altro gol memorabile, al Napoli di Maradona già campione d’Italia. Tornerà poi in C, a Foggia, e lascia il calcio dopo le esperienze nei dilettanti con Viareggio, Rondinella e Treviso. “Quello era il calcio che mi piaceva” ha ammesso. “Mi è rimasto il ricordo”.
Alessandro Mastroluca