Nel 1985 lo scudetto del Verona di Bagnoli
Mag 11, 2024

Era il 12 maggio1985 quando l’Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli ottenne contro l’Atalanta quel punto che mancava per la certezza matematica del primo (e unico) scudetto della sua storia.

Furono in totale 15 vittorie, 13 pareggi e 2 sconfitte, con imprese indimenticabili come il gol senza scarpa messo a segno dal danese Preben Elkjaer alla Juventus, a consegnare ai gialloblù quello scudetto, anno 1985, che resta l’unico sino ad ora nella storia dell’Hellas. Un evento di cui l’allora tecnico Osvaldo Bagnoli, distribuisce il merito: “Per lo scudetto vinto dal Verona bisogna ringraziare lo spogliatoio. Erano dei ragazzi che andavano d’accordo fra di loro. Il migliore ricordo di quell’anno è proprio lo spogliatoio. Avevamo cambiato solo i due stranieri che si trovarono subito benissimo con il resto del gruppo. Il mio preferito? Non si può dire. Era un gruppo che andava d’accordo e non c’erano preferiti”.

Il campionato più bello del mondo

Per spiegare a un 16enne di oggi che cos’era la serie A degli anni’80, bisognerebbe prendere le “rose” di Real Madrid, Barcellona e Bayern Monaco, fare 20 coppie tra i giocatori più forti e distribuirle totalmente a caso. Cristiano Ronaldo e Xabi Alonso all’Udinese? Messi e Sergio Ramos all’Atalanta? Il Cesena con Alaba e Pedro e ciò nonostante retrocesso in serie B? Guardate che non stiamo esagerando, perchè alla metà degli anni’80 la serie A era davvero tutto questo, e non per altro veniva definito, senza tema di smentite, il campionato più bello del mondo. Il Verona ebbe il merito, e in parte la fortuna, di trovarsi nel mezzo della perfetta congiunzione astrale che proiettò la provincia in paradiso.

 

 

Furono tanti i fattori che resero magica e irripetibile quella stagione. La Juventus, che era pur sempre la Nazionale campione del mondo di tre anni prima con in più Platini e Boniek, si era concentrata quasi esclusivamente sulla Coppa dei Campioni, che di lì a poco arriverà nella tragica notte dell’Heysel; il Milan era ancora un “povero diavolo”, tutto cuore e zero ambizioni, mentre all’Inter di Kalle Rummenigge (doppio Pallone d’oro, per chi lo avesse dimenticato) mancava sempre la lira per fare il milione e diventare grande.

Una situazione che dava legittime speranze alle squadre da sempre fuori dai giri scudetto. L’Udinese l’anno prima aveva ingaggiato Zico, il Napoli aveva appena messo sotto contratto Maradona, la Fiorentina sognava con Socrates, la Sampdoria aveva preso Souness, il capitano del Liverpool campione d’Europa l’anno prima: ma sia friulani che partenopei avevano costruito le squadre partendo dal tetto e non dalle fondamenta. Il Verona fu invece costruito dalla base, con intelligenza e mattone dopo mattone, passò in tre anni dalla promozione in serie A allo scudetto.

Il miracolo scaligero

Un caso che risulterebbe davvero insolito oggi, quello dello scudetto del Verona. Una squadra composta quasi esclusivamente di italiani, gli unici due stranieri erano il tedesco Briegel e il danese Elkjaer. Un campionato combattuto che si risolse il 12 maggio con quel punto garanzia, ottenuto grazie ad un 1-1 fuori casa contro l’Atalanta. Un feeling speciale nello spogliatoio, una grande intesa con il regista di quel successo, Bagnoli, che l’ex centrocampista Domenico Volpati spiega così: “La modestia di Bagnoli è incredibile, in lui è insita la saggezza delle persone semplici. È molto pragmatico e in quello spogliatoio non doveva parlare tanto. Sapevamo già tutto, bastava guardarsi negli occhi”.

Ma c’era anche l’intelligenza del direttore sportivo Emiliano Mascetti, che seppe pescare giocatori di grande qualità ma scartati dalle grandi: Fanna e Galderisi dalla Juventus, Di Gennaro dalla Fiorentina, Garella dalla Lazio, lo stesso Volpati dal Torino. In terza analisi, la lungimiranza di costruire la squadra sugli italiani per poi mettere gli stranieri al posto giusto: un terzino di gran dinamismo come Hans-Peter Briegel e uno dei più forti attaccanti della sua epoca, Preben Larsen-Elkjaer, al quale è legata l’immagine più iconica di quella stagione, il goal senza una scarpa alla Juventus.

Dovendo scegliere un’immagine scegliamo la partita del 10 febbraio, quando i gialloblù vinsero 5-3 a Udine, perchè dà come nessun’altra l’idea di cosa fosse quell’anno la serie A. Due complete outsider ad affrontarsi nella partita di cartello, da una parte uno dei giocatori più forti del mondo e dall’altra un gruppo con un grande sogno in testa, in grado di produrre una partita rocambolesca e piena di goal come raramente succedeva a quei tempi in Italia, dove bastava una vittoria superiore al 2-0 per far parlare di “goleada”. Un campionato, e un Paese, dove tutto sembrava davvero possibile.

A rivedere ora le immagini di quel 12 maggio di 37 anni fa, e dell’apoteosi a Bergamo dopo lo scudetto matematico, colpisce la semplicità di quella festa: nessuna esultanza isterica, nessuna mossa costruita in favore di uno sponsor, di un post social o semplicemente del proprio ego. Solamente l’orgoglio di aver costruito qualcosa di unico e irripetibile.

Mario Bocchio

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