Straordinario fu il podio, tutto straniero, dei cannonieri della stagione 1958-‘59. Ventotto gol, il record dei suoi diciotto campionati italiani, valsero all’esordiente brasiliano José Altafini detto Mazola soltanto il secondo posto; e terzo, con ventisei bersagli personali, fu l’inafferrabile uccellino della Fiorentina, lo svedese Kurt Hamrin. Al primo posto si issò, con la quota record di trentatrè reti, tuttora primato per i tornei a diciotto squadre, Antonio Valentin Angelillo, non ancora ventiduenne argentino dell’Inter.
Passato sostanzialmente come una meteora, almeno a certi livelli, occorrerebbe scomodare la penna di un collaudato sceneggiatore hollywoodiano, perché la sua vicenda fu un intreccio di giallo e di rosa, persino sovrappostosi al solo aspetto tecnico. L’amore, l’invidia, la congiura, in varia misura entrarono nel rapido declino agonistico di un sicuro fuoriclasse del gol.
Il suo contrasto con l’inflessibile mago Helenio Herrera, fu il movimentato preludio alla nascita della grande Inter morattiana. Sicché ancor oggi, quando si parla di Angelillo (che è poi stato anche un ottimo tecnico), immeritatamente si tende a privilegiare un privato che fece scalpore, anziché tratteggiare i meriti di un campione bruciato verde, ma di immenso talento.
La storia, anche quella del calcio, non si può riscrivere, ma porle qualche steccato sì. Ecco allora che nella finalissima del Sudamericano (oggi Coppa America) del 1957 l’Argentina infligge un mortificante 3-0 al grande e favorito Brasile. Tenete a mente la data: 1957, un anno prima che il Brasile spezzasse il suo tabù mondiale e balzasse, in Svezia, agli onori dell’universo calcistico, con una schiera in inarrivabili artisti del pallone ingentiliti dall’astro nascente Pelé.
Alla finale americana del 1957, a Lima in Perù, il Brasile schierava Didi e Dino Sani, Zizinho e Djalma Santos e Pepe, eppure fu spazzato via da un’Argentina giovanissima che presentava in attacco il «quinteto diabolico»: Corbatta – Maschio – Angelillo – Sivori – Cruz.
Antonio Valentin Angelillo, nato a Buenos Aires il 5 settembre 1937, non ancora ventenne era il centravanti di uno dei reparti offensivi più forti dell’intera storia del calcio. Segnò il gol d’apertura, gli altri furono firmati da Maschio e Cruz. Il Boca Juniors, di cui era l’idolatrato condottiero, pensò a monetizzare adeguatamente l’evento, come del resto fecero il River Plate con Sivori e il Racing Avellaneda con Humberto Maschio. I tre «angeli dalla faccia sporca» presero la via dell’Italia, inondando di dollari la casse esauste delle rispettive società di appartenenza, ma precludendosi un futuro di gloria sul fronte internazionale.
Ecco perché la storia poteva essere diversa: cosa avrebbe fatto quell’Argentina, se mantenuta intatta, ai Mondiali del ’58 in Svezia e dove sarebbe arrivato Angelillo, il suo angelo del gol?
Invece, a vent’anni, con i capelli impomatati come un ballerino di tango e lo sguardo venato di malinconia, Angelillo approda all’Inter. Allenatore è l’inglese Jesse Carver, è il periodo in cui Angelo Moratti insegue freneticamente il successo, ruotando le scelte.
Antonio Valentin invidia il collega Sivori che, arrivato in una Juventus organizzata, vince subito lo scudetto. L’Inter si classifica nona e staccatissima, i tifosi sono in subbuglio, ma risparmiamo il giovane argentino, che ha segnato sedici gol e regalato i pochi lampi di luce della stagione.
L’anno seguente l’Inter cambia manico, arriva Beppe Bigogno, gentiluomo e tecnico raffinato. L’ambiente è in agitazione perché l’ennesima rivoluzione morattiana ha tagliato definitivamente i ponti col passato, cedendo due mostri sacri come Giorgio Ghezzi, il portiere kamikaze, e Benito Lorenzi, l’attaccante al veleno. A placare l’ambiente ci pensa Angelillo.
Oltre ad accarezzare splendidamente il pallone, a regalare numeri d’alta scuola, realizza con regolarità incredibile. Trentatré gol in trentatré partite, gol tutti splendidi, perché Antonio Valentin non è un ariete, è un goleador di fantasia e di tocco; ha potenza, ma rispetta sempre i canoni della tecnica platense. Grazie a lui l’Inter è terza. Ad appena ventidue anni, Angelillo appare la garanzia di un futuro migliore. Per lui stravede Moratti: è stato forse il suo primo acquisto pienamente azzeccato.
Ma ecco che la storia si colora di rosa. Solo, triste, Antonio Valentin trova consolazione nelle grazie di una cantante-ballerina, Ilya Lopez, nome esotico, ma italianissima. Il calciatore e la pin-up, che ghiotto piattino per una critica bacchettona! Angelillo segna soltanto undici gol, e indovinate come viene spiegata la flessione.
Il quarto anno è quello fatale. Stagione ‘60-‘61, all’Inter arriva il ciclone Herrera. Che non tollera altri idoli all’infuori di sé e sulla vicenda Lopez costruisce la sua trama. Angelillo è ingombrante, e poi il mago fortissimamente vuole Luis Suárez, l’architetto del Barcellona. Suárez costa un occhio della testa, solo la cessione di Angelillo può convincere Moratti all’investimento.
Così il mago «distrugge» scientificamente l’argentino: molte esclusioni, quindici partite appena. Antonio Valentin non è un combattente, è solo un fuoriclasse. Malgrado tutto segna otto gol, più di mezzo a gara, ma la sua sorte è segnata: finisce alla Roma, dove giocherà molte stagioni a ottimo livello, ma senza più il gusto del gol, modificando la propria posizione, perché la tecnica gli consente di diventare un interno di raffinata impostazione.
Angelillo, il più grande bomber del dopoguerra per i numeri, non arriva a cento gol, si ferma a novantotto. Ha ballato due stagioni appena, l’astio per Herrera, il suo carnefice sportivo, non lo abbandonerà mai. Sin quando ha potuto galoppare in libertà verso la porta avversaria, è stato un centravanti formidabile, per la proprietà dei suoi fondamentali tecnici uniti alla precisione e alla potenza delle sue conclusioni, di piede e di testa. Completo come Van Basten, se proprio volete un parallelo. Vittima del moralismo e di un carattere non proprio leonino, si è fermato troppo presto. Ma nessuno ha ancora battuto il suo record.
Fonte Storie di Calcio