Ci sono partite di calcio che, più di altre, hanno un significato storico particolare, raccontano di epoche ed avvenimenti, racchiudono quella magia, tipica di questo gioco, di rappresentare il mondo in uno stadio: Bologna-Fiorentina è una di quelle, è il “Derby dell’Appennino”. Due città di origini antiche, pregne di storia e di bellezza, due città divise da appena cento chilometri di strada, fino a non troppi anni fa, una strada lunga e scoscesa, di grandi salite e paurose discese. Adesso, con la nuova “Variante di Valico”, da Firenze si arriva a Bologna in un baleno, è una delle trasferte più rapide per le due squadre, ma soprattutto per i tifosi, che da sempre colorano l’aria, degna di un derby.
È l’alba del calcio, nell’Italia fascista, si fa sempre più spazio questo gioco avvincente, nato in Inghilterra, ma sviluppatosi rapidamente in tutto il continente; il calcio trascina, coinvolge, esalta, è il mezzo perfetto, per Mussolini, di dimostrare il valore dell’Italia a tutta Europa. Proprio in questi anni, nascono decine e decine di associazioni, società che riuniscono atleti e si contornano di appassionati. Domenica 25 novembre 1928, la lava ha appena cessato di distruggere la cittadina siciliana di Mascali, dimostrando quanto fosse pericoloso il vulcano Etna, negli stessi giorni, dall’altra parte del mondo, nasce un mito che conquisterà l’era contemporanea: “Topolino”. In questo giorno, va in scena la prima sfida tra Fiorentina e Bologna con i rossoblù che la spuntano, vincendo per 3 a 2.
Pochissimi anni ed iniziano già le scintille da derby: stagione 1931-‘32, Hermann Felsner, l’allenatore del Bologna, già campione d’Italia coi felsinei, decide di passare alla Fiorentina, portando con sé i due pupilli Busini e Pitto, la Viola ingaggia anche “l’artillero” Pedro Petrone, ma proprio il Bologna gli porta via il compagno, connazionale e spalla d’appoggio: Sansone. È bagarre! Questi scambi daranno il via ad una serie di passaggi attraverso l’Appennino che sono anche attualità: da Clerici a Buso, da Pecci a Luppi, e poi Paganin, Bettarini, Tarozzi, Gamberini, Osvaldo, Gilardino, Diamanti, Delio Rossi e Corvino, tra gli ultimi in ordine di tempo. Tranquilli, non ce ne siamo dimenticati! Di Baggio parleremo dopo!
Le sfide proseguono nei ’40, ma sono anni di una guerra assurda e spaventosa, le bombe e le invasioni gettano il Paese in un incubo, il calcio è un momento di svago, ma sono immense le sofferenze, per poterlo vivere a pieno. La fine del conflitto mondiale ed il boom del miracolo economico italiano, tra i ’50 ed i ’60, torna a dare grande lustro al derby, anche perché le due squadre vivono momenti tra i più gloriosi della loro storia.
Nel 1956 arriva lo scudetto per la Fiorentina, per la prima volta Campione d’Italia, è la Viola della “saracinesca” Sarti, di Cervato e del grande Virgili; un campionato storico che vede i gigliati battere il Bologna in trasferta per 2 a 0 all’andata, mentre il ritorno si conclude sullo 0 a 0.
Passano pochi anni ed è il Bologna a festeggiare il tricolore, una squadra fantastica, guidata dall’indimenticato Giacomo Bulgarelli e trascinata dai gol del bomber Harald Nielsen. In un campionato esaltante, conclusosi addirittura allo spareggio finale, i felsinei riescono ad avere la meglio sulla Grande Inter di Angelo Moratti e del “mago” Herrera, spezzando un dominio assoluto.
In quell’anno i rossoblù sono un rullo compressore, con la Fiorentina vincono in casa per 2 a 0 all’andata, ma vengono fermati sullo 0 a 0 al ritorno.
Altri sei anni e lo scudetto torna incredibilmente a Firenze, l’argentino Bruno Pesaola disegna una fiorentina d’assalto, veloce, imprendibile; con la regia di capitan De Sisti, Chiarugi e Maraschi strappano tutte le reti d’Italia, ed i tifosi viola sono in delirio per la seconda volta nella storia. In quel campionato perfetto dei gigliati c’è solo una macchia, una sola sconfitta nel torneo, e sapete con chi? Proprio contro il Bologna, che s’impone a Firenze all’inizio del torneo e riesce a fermare la corsa viola anche al ritorno, impattando 0 a 0.
Da allora il tricolore non è stato più affare dell’Appennino settentrionale, ci sono state soddisfazioni per entrambe le squadre, ma, mai più, si è festeggiato il titolo; sono memorabili gli scontri scintillanti tra due cannonieri storici dei club: Signori e Batistuta, che lottavano per la classifica cannonieri. Ma nella storia recente, se si parla di Fiorentina e Bologna, non può che balzarci alla mente un nome, che ha fornito ai tifosi delle due fazioni un sentimento comune, un amore: quello per Roberto Baggio. Il fuoriclasse di Caldogno ha vestito le maglie delle due squadre, in momenti decisamente diversi della sua carriera, ma è riuscito a lasciare un segno indelebile sia al Franchi che al Dall’Ara.
A Firenze è arrivato da ragazzino e se n’è andato da campione, il suo acquisto, da parte della Juve, ha scatenato il putiferio in tutta la città: un popolo in subbuglio ha gridato allo scandalo, e la rivalità con i bianconeri è diventata come un’ossessione.
A Bologna appare in circostanze quasi opposte, scaricato dal Milan e pure dal Parma nella solita estate, è il 1997 quando si accorda coi felsinei; trascina la squadra in esaltanti ed insperate vittorie, ma il rapporto difficile con mister Ulivieri scatena esclusioni e polemiche. I tifosi stanno dalla sua parte ma non c’è niente da fare, dura soltanto un anno l’avventura in rossoblù, un anno che bastò per non farsi mai dimenticare.
Ma vogliamo soffermarci sull’incredibile vicenda riguardante il suo passato viola, una vera e propria storia d’amore, che un vero cuore gigliato non può non conoscere.
I primi due anni a Firenze, Roberto è un ragazzino di belle speranze arrivato dalle pianure vicentine, un talento che però non gioca mai. È quasi un “desaparecido”, un doppio infortunio al ginocchio lo costringe ai margini e lui si isola, sparisce, lavora duro col corpo e con la mente, si avvicina alla fede e alla filosofia orientali, abbracciando i principi del buddismo, coi quali vince una grande crisi esistenziale e spirituale.
Quando si ristabilisce e torna in campo Firenze impazzisce. I suoi colpi sono da fuoriclasse fa gol e assist bellissimi, ha la stoffa del leader silenzioso, le sue giocate da campione fanno innamorare una città.
Lui ricambia con un attaccamento fantastico per il pubblico e per la maglia, la Fiorentina sembra aver trovato il nuovo idolo, degno erede di Antognoni, ma il presidente Pontello non la pensa così e cede Baggio alla Juventus per la cifra record di 18 miliardi di vecchie lire. L’Artemio Franchi diventa la “Palestra della Pallacorda” e la società “la Bastiglia”: a Firenze scoppia la rivoluzione.
Le manifestazioni di protesta dei tifosi arrivano fino a Coverciano, dove la Nazionale si prepara al mondiale, siamo nel maggio del 1990, è l’estate delle “Notti Magiche”, l’estate di “Italia ’90”, e la vicenda fa un rumore assordante.
Sono cose quasi impensabili, per il calcio di oggi, quelle che succedono i giorni seguenti: nella conferenza stampa che attesta il suo passaggio in bianconero, gli mettono una sciarpa della Juve al collo e lui cosa fa? La getta via! Non voleva andarsene, era troppo riconoscente per l’amore smisurato che la città gli aveva dimostrato, lo aveva aspettato, e poi adorato come si fa con un figlio.
Adesso siamo abituati ai “mal di pancia”, alle bizze dei campioni che vogliono cambiare aria per mettere la firma su contratti faraonici, infischiandosene di maglie e tifoserie. Il 7 aprile 1991, il “Divin Codino” torna a casa, nel suo stadio, da avversario; l’arbitro fischia un rigore per la Juventus, ma lui si rifiuta di batterlo, dice che il portiere avversario lo conosce troppo bene. Ma non è la verità. La verità è che non vuole fare male alla sua gente.
Negli anni l’affetto di Roberto Baggio per la città è rimasto inalterato mentre Firenze ci ha messo un po’ per digerire lo smacco del ragazzino che se ne andò dagli eterni rivali; un addio amaro che solo l’infinita classe del campione vicentino ha saputo riparare. Perché Firenze ed i fiorentini alla bellezza ed alla classe non sanno proprio rinunciare.