Correva, correva. E il mento sporgente affettava l’aria come un alettone. Diventò “Basléta”, il dialetto per dire del mento impettito, e anche un bel calciatore. Di quelli che si fanno da sé e per gli altri pure in quattro. Un tipo dai piedi buoni, però non di velluto: se andavano di fretta valevano di più. Si corre per fuggire, per acciuffare, a volte solo per non dover pensare. Basléta correva per arrivare: arrivare a fare anche quello che spettava ai polmoni altrui. Era una borraccia senza essere un gregario, era una tirata di fiato per chi lo aveva più corto (o correva per diporto). Era soprattutto la passionaccia di giocare al calcio: e se la palla rotolava dentro San Siro o tra i crateri d’ erba dell’oratorio di Caselle Lurani, cosa cambiava?
Lo spirito si indossa una volta per tutte e non c’è differenza: azzurra la maglia della nazionale campione d’Europa nel ’68 e azzurra quella del Novara in serie C, dieci anni dopo, nel giorno dei saluti. Congedato dalla perfida smemoratezza del pallone senza tanti grazie: confinato nell’ anonimato con i suoi scudetti, la Coppa Campioni e l’Intercontinentale (nella notte dei lividi con l’Estudiantes), tutto con la maglia del Milan: spalla di Rivera fino al giorno in cui quello gli diede le spalle.
“Mi hanno dimenticato molto presto. Mi sarebbe piaciuto restare nel calcio allenando i ragazzini, lo proposi a Rivera quand’era presidente del Milan o giù di lì: aspettai tre mesi fino a quando presero un altro. Fu la mazzata finale. Da allora basta col calcio e con Rivera. Non ci siamo più visti nè sentiti”.
Giovanni Lodetti è una storia – come ha scritto Cesare Fiumi nella sua intervista – che può cominciare anche da qui, dal giorno dell’addio ai campi, tanto è fedele a sé stessa, circolare, coerente.
“Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni. Una mattina al parco Trenno vedo dei ragazzi che giocano. Mi fermo a guardare: la squadra che perde ha un giocatore in meno. Non resisto e vado dietro al loro portiere: ‘Scusa, mi fate entrare?’ Quello si volta e non ha tanti riguardi, i ragazzi di oggi sono così: ‘Ma dai, qui siamo tutti giovani’. Insisto: ‘Gioco anche in porta’. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po’ mi dice ‘Sai che sei buono? No, sul serio’. Troppo giovani per ricordarsi di Lodetti e allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali. ‘Sì, ma come ti chiami?’. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica: ‘Mi chiamo Ceramica’. Mi hanno guardato strano però mi hanno accettato e da allora ogni sabato mattina Ceramica se n’è andato al parco Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica. Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato“.
Tanto il posto in squadra ormai era conquistato, senza far pesare nome e passato. Solo con la voglia matta di giocare, di divertirsi.
Nelle figurine ancora acerbe dei primi anni ’60 gli occhi spiritati di Basléta ti bucavano come due spilli: gli riesce ancora oggi quando va in tackle con la memoria, rammentando le ingratitudini di Milan e Sampdoria, le liquidazioni senz’anima nè stile. Perchè ad ogni nuovo album Lodetti perdeva qualche capello, mai un colpo: 350 partite in serie A, 117 di fila, in campo anche ferito con un turbante di garza come gli antenati pedatori. Una dedizione al sacrificio a cuor leggero, che era di una generazione nata povera (“a casa mia, al paese, non avevamo nulla, solo noi stessi”), la guerra come un’eco; il superfluo, uno spreco. Miracolata dal calcio al punto da non smettere più di ringraziarlo. E di giocarlo. Correre per tutti da non avere neppure il tempo per fare tanti gol: in nazionale solo una doppietta, col Galles. E non poteva essere che un 1 maggio: il lavoratore Lodetti s’era preso una vacanza.
“Partii per la serie A, per il Milan, che avevo già 17 anni. Non costai molto: centomila lire più una muta di maglie. Mi vennero a prendere con la Lambretta. Quando tornai con il primo stipendio vero, 160mila lire, salii sull’autobus con la mano sul cuore e non la tolsi fino a casa: nella tasca interna della giacca tenevo i soldi e non volevo che sparissero all’improvviso. Anche se mia madre Maria diceva una grande verità: el dane’ el dana, il denaro danna. Guardi la generazione di oggi, anche dei calciatori: i soldi sono diventati l’unico dio. La nostra generazione di genitori ha fatto un disastro. Genitori distratti hanno scoperto il benessere e rovinato tutto senza più educare, con quell’idea malsana che i figli devono avere tutto senza guadagnarsi nulla. Lasciano che ad educare sia la Tv, rinunciano a ogni dovere: no, io non ho mai accettato la Tv accesa mentre la famiglia è a tavola, nel momento in cui ci si può parlare. Oggi conta solo l’egoismo, solo arrivare“.
“Se avessi potuto allenare i ragazzi, una volta li avrei convocati al mattino presto ad una fermata di metropolitana a guardare la gente che lavora, che si muove, che suda, che corre, che si danna. Gli avrei fatto capire la fortuna di fare il calciatore e il privilegio di ritrovarsi ricchi da giovani. Per carità , i giocatori oggi sono abituati persino a consegnare al magazziniere la propria valigia alla partenza di una trasferta e riprenderla alla fine: già trovano disdicevole portare il proprio bagaglio“.
Perchè Basléta la sua valigia se la portò sempre da solo, anche quando dentro c’erano i sassi di Messico, le amarezze pesanti di un rientro anticipato.
“Altri tempi i miei. Penso al raduno ad Asiago col Milan nel 1962, convocato a discutere il mio primo contratto. Viani e Rocco che parlano tra loro come se io non ci fossi e poi mi chiedono a bruciapelo: ‘Beh tu?’. ‘Sono qui per il contratto’. ‘Ma sei tu che devi pagare noi che ti facciamo giocare’. Era una battuta, eppure era la verità . Loro erano così, sdrammatizzavano sempre, specie Rocco: il giorno dell’ esordio in prima squadra, dopo che si era fatto male Dino Sani, mi chiama da una parte: ‘Senti Lodetti oggi abbiamo deciso di diventare matti, ti facciamo giocare. Poi arrangiati’. Ma in quel Milan lì ci mettevi niente a vincere, facevi paura solo a scendere in campo: Rivera, Altafini, Mora. Io non ho mai pensato di diventare Rivera, ma ho dato tutto per essere bravo come gli altri“.
Correva, correva Basléta. E non smise neppure quando provarono a fargli passare la voglia: di giocare e di correre. Certi anni sono come una cappa sulla vita, non ne indovinano una, neppure un passaggio facile facile. È il ’70 e la famiglia Lodetti a Milano ha appena traslocato, il calciatore Lodetti è partito per i Mondiali del Messico (seconda avventura azzurra dopo l’Inghilterra ’66) prima di affrontare la decima stagione al Milan. La storia è nota: Anastasi non sta bene, deve essere sostituito: arrivano dall’Italia Boninsegna e Prati, gli azzurri diventano 23, uno di troppo.
“Un giorno telefona mia moglie, su un giornale è uscita la notizia che l’escluso dai Mondiali sono io. Non ci credo e faccio male. L’ultimo giorno prima della lista Fifa, siamo tutti a guardare in Tv l’amichevole del Brasile. Arriva Tresoldi, il massaggiatore: ‘Lodetti ti vogliono di sopra’. Mi alzo: ‘Ragazzi, tranquilli, hanno scelto me’. E infatti mi comunicarono la decisione: mi offrirono di restare come ospite, di invitare la mia famiglia per una vacanza ad Acapulco, e comunque mi garantirono gli stessi soldi degli altri. Io prima li ascoltai, poi risposi che erano solo facce di m.., che non si umiliavano così le persone e che non volevo restare un giorno di più, feci la valigia, ripartii per l’ Italia. Alla fine mi arrivò solo la metà dei soldi, anche lì mi fregarono. Valcareggi contava nulla, decise Mandelli“.
“Un mese e mezzo dopo, a 27 anni, il Milan mi brucia definitivamente la carriera, mi cambia la vita. Senza avvertirmi mi cede alla Samp: addio scudetti, nazionale, da allora avrei giocato solo per salvarmi. Di nuovo trasloco, a Genova. Sarebbero stati anni bellissimi ma restava quel benservito senza tatto. Adesso non si potrebbe più, la mia generazione è quella del primo sindacato calciatori: le nostre battaglie hanno cambiato le cose per chi è venuto dopo di noi“.
Chissà se proprio in questo, Lodetti non si senta un genitore troppo generoso… “Ma sì, alla fine le batoste ti fanno crescere. Allora fu decisiva mia moglie, fu lei a tirarmi su, a ridarmi la carica“.
A riavviare quel motore inesausto che tra Genova, Foggia e Novara avrebbe scoppiettato per altri 8 campionati; che avrebbe spopolato al parco Trenno; che avrebbe iniziato la sua attività commerciale, manco a dirlo, nella ceramica.
“Ho avuto tre fortune: la salute, la fede, la famiglia. Io e Rita, una donna meravigliosa, ci siamo sposati nel 1967. Ci siamo conosciuti davanti a un juke box, la nostra canzone era Il mondo di Jimmy Fontana. E ancora oggi, nelle serate con gli amici mi tocca cantarla. Ormai sono abituato e attacco ispirato: Iiil mondooo, non si è fermato mai un momento“.
Neppure Basléta, se è per questo…