Nato a Napoli il 27 maggio 1972, ha dato i primi calci al pallone come si faceva una volta: “Come tutti i ragazzi napoletani ho iniziato a giocare per strada, le mie prime partite erano in mezzo alle macchine e alle persone nelle viuzze di Napoli. I primi passi sul campo li ho mossi nella scuola calcio di Gianni Improta e da lì sono stato catapultato in una società professionistica come il Catanzaro, che allora militava in Serie B”.
Massimiliano Esposito ha spiccato il volo con la maglia della Reggiana, prima di arare le fasce dell’Olimpico, al servizio di Zdenek Zeman con la Lazio: “Mentre ero alla Reggiana arrivarono tantissime richieste. La chiamata che non potei rifiutare fu quella della Lazio di Zeman. Il boemo mi aveva già cercato quando era a Foggia e io a Catanzaro, ma lì il matrimonio non si fece per chissà quale motivo”.
Poi il sogno dell’approdo al Napoli, squadra della sua città per la quale faceva il tifo da bambino. Un’esperienza complicata ma comunque indimenticabile, prima delle stagioni a Perugia e Brescia, dove la sua strada s’incrociò con quella del mitico Carletto Mazzone: “Seguirlo da Perugia a Brescia per me è stato importantissimo, non tanto dal punto di vista della carriera, ma da quello umano. Mi ha dato tantissimo e posso dire che tutto quello che mi ha trasmesso, cerco di inculcarlo oggi ai ragazzi che alleno. Sono valori importanti che ti porti dietro per tutta la vita”. Nella lunga chiacchierata che ha concesso a Jacopo Pascone per Guerin Sportivo-Il Cuoio, viene ripercorsa tutta la carriera di Massimiliano Esposito.
Come hai vissuto il salto diretto dalla Serie C2 con il Catanzaro alla Serie A con la Reggiana?
“Come tanti giornali dell’epoca descrissero, fu un salto davvero vertiginoso, dalla Serie C2 alla A. Tutto potevo immaginare fuorché diventare, al primo anno di Serie A, protagonista o eroe, come mi chiamano i tifosi della Reggiana, di una salvezza storica. Ad oggi nessuno è riuscito ad eguagliare quel risultato. È stato un anno di crescita, grazie all’aiuto della società e del mister ho avuto la possibilità di formarmi in maniera lenta, tranquilla, ma costante. Questo lavoro poi mi ha portato a realizzare cinque reti nelle ultime otto partite, una più importante dell’altra. L’ultima nella partita finale contro il Milan, dove vincemmo 1-0 e raggiungemmo la salvezza proprio al fotofinish”.
Cinque reti decisive e di pregevole fattura: ma facevi solo gol belli?
“Ogni tanto mi rivedo i filmati dei gol che ho fatto, anche se me ne mancano tanti perché non sono riuscito a recuperarli, ed effettivamente ho fatto tutti gol belli e difficili. Quelli facili non mi riuscivano (ride NdR)”.
Come quello che segnasti appena arrivato a Napoli in un’amichevole di lusso al San Paolo contro l’Olympiakos…
“La rovesciata contro l’Olympiakos è una parentesi che ricordo sempre e che ricordano anche i tifosi. Purtroppo l’ho fatta in un’amichevole e non in una competizione ufficiale, perché per la difficoltà del gesto tecnico sarebbe stato un gol del quale si parlerebbe ancora oggi”.
Hai sempre giocato sulla fascia destra, quanto è stato differente interpretare il tuo ruolo con allenatori fautori di un calcio agli antipodi come Zeman e Mazzone?
“Il mio ruolo è stato sempre quello di ala destra. Con Zeman giocavo largo nel tridente, facevo l’ala offensiva, come con la Reggiana. Mazzone, sia se giocava a 3 dietro (quindi con i quinti a centrocampo) o con la mediana a quattro (quando ricoprivo comunque il ruolo di esterno di centrocampo), pretendeva che gli esterni ripiegassero sulla linea difensiva. Con lui mi sono trasformato nella classica ala tornante, attenta sia alla fase difensiva che a quella offensiva. Ruolo che richiedeva un grande dispendio di energie”.
Quanto devi a Zeman e Mazzone?
“Sono i due allenatori che hanno segnato la mia carriera. Zeman mi ha dato la possibilità di arrivare in un grande club come la Lazio: in un certo senso ha dato il la alla mia carriera. Carattere un po’ particolare, lo conosciamo tutti, ma grandissimo intenditore di calcio. Inventore di quel 4-3-3 che dava spettacolo. Con lui io andavo a nozze, visto che era un fautore del gioco offensivo. Mazzone è stato per me come un secondo padre, curava molto di più i rapporti umani con i giocatori. Diventare un suo fedelissimo voleva dire tanto: parliamo di un uomo espertissimo, il decano degli allenatori. Ti racconto un aneddoto. Diceva sempre che aveva un fratello gemello: fuori dal campo era lui in persona, mentre in campo entrava in gioco il suo gemello. Queste due personalità si amalgamavano alla grande, era un mix di insegnamenti, valori, battute, autoironia… Un uomo che ha dato tantissimo al calcio e a tutti i calciatori che hanno avuto la fortuna di averlo come allenatore”.
Dopo la Reggiana l’approdo alla Lazio, una squadra a cui eri già legato…
“Sì, perché io sono tifoso del Napoli, ma simpatizzo Lazio. Un mio carissimo amico, Antonio Nosdeo, è tifoso biancoceleste. Eravamo insieme a Catanzaro e lui mi trasmise questa simpatia per la Lazio”.
Come andò l’avventura nella Capitale?
“Ero partito titolare: all’inizio Zeman mi aveva preferito a Rambaudi e avevo esordito in campionato addirittura con una doppietta. Poi un infortunio mi tenne lontano dai campi per circa due mesi e al rientro giocai un pochino meno”.
Nell’estate del 1996 la realizzazione di un sogno: Massimiliano Esposito viene acquistato dal Napoli.
“L’avventura di Napoli è un mix di emozioni. Soprattutto all’inizio: sai, ritornare dopo tanti anni a casa e giocare con la squadra per cui hai sempre tifato, spogliarsi nello spogliatoio dove si spogliava Maradona, giocare al ‘San Paolo’ e, soprattutto, giocare per la tua gente. Ripercorri da professionista tutto quello che avevi sognato da tifoso: è qualcosa d’impagabile”.
Cosa non andò?
“Purtroppo sono capitato in un Napoli dove l’era Ferlaino stava finendo. Due anni particolari, difficili, che mi hanno fatto togliere comunque qualche soddisfazione. Abbiamo giocato una finale di Coppa Italia contro il Vicenza, perdendola in maniera rocambolesca. Ho solo sfiorato la vittoria di un trofeo, ma è stato comunque emozionante. Ricordo la semifinale contro l’Inter. Al ‘San Paolo’ c’erano 80mila spettatori, non c’era un buco, quelli restano ricordi indelebili per un giocatore, figuriamoci per un tifoso che scende in campo”.
Cosa ti ha lasciato l’avventura nella squadra della tua città?
“La cosa bella è che, pur non essendo stati due anni da ricordare per il Napoli, oggi riscontro sui social grande calore e affetto da parte dei tifosi napoletani, addirittura più da parte loro rispetto a quelli delle altre piazze in cui ho giocato. Una cosa che sinceramente non mi sarei mai aspettato, invece c’è e me la godo tutta. Questo dimostra che l’attaccamento alla maglia e l’impegno che ci ho messo, cose che purtroppo si vedono sempre meno nel calcio d’oggi, è stato apprezzato”.
Vista la tua simpatia per la Lazio, se ti dico 14 maggio 2000?
“Giocavo con il Perugia. In squadra avevamo Materazzi, che ai tempi era super laziale (poi col tempo è diventato interista), quindi ti posso far immaginare come abbia caricato l’ambiente e lo spogliatoio. Ovviamente per quanto mi riguarda c’era poco da caricare, da ex laziale e simpatizzante avevo piacere che lo scudetto lo vincesse la Lazio piuttosto che la Juventus. Noi non avevamo niente da perdere, a parte le minacce di Gaucci che ci avrebbe portato in ritiro se avessimo perso la gara (ride NdR). Anche lo stesso Mazzone ci chiese di rispettare il campionato fino alla fine, di dare tutto quello che avevamo, dimostrando all’Italia e al mondo intero che c’era rispetto per la partita e per il campionato. Così è stato, magari non ci aspettavamo una vittoria, però alla fine è arrivata. Avevamo più benzina nelle gambe della Juve, perché aldilà del campo pesante, eravamo più liberi mentalmente. Venne fuori una grandissima vittoria che portò lo scudetto alla Lazio: tutti vissero felici e contenti”.
Dopo il Perugia, il trasferimento al Brescia. Cosa si prova a giocare con Roberto Baggio?
“Fin da piccolo, oltre ovviamente a Maradona che era l’idolo incontrastato, provavo un fascino particolare per Baggio. Quando lo ritrovai a Brescia fu incredibile. Lo spogliatoio mi aveva affidato la maglia numero 10. Io per il mio ruolo preferivo la 7, ma non c’erano in squadra ‘giocatori da 10’, quindi la affidarono a me, che accettai ben volentieri. Poi arriva Roberto Baggio: che fai? Decidemmo con il mister di vedere se c’era la possibilità di cambiare la numerazione che era già stata ufficializzata. La Federazione, in via del tutto eccezionale, proprio perché era Baggio, riuscì a farlo. Con molto entusiasmo diedi la 10 a Baggio, ne sono stato felice perché negli anni di Brescia ci ha emozionato tutti. Era incredibile allenarsi con lui, vedere come calciava. Spesso facevamo le gare di punizioni. Poter rubare da vicino i segreti del calcio a un maestro come lui non è da tutti, aggiungo che in quegli anni ho avuto la fortuna anche di giocare con Guardiola… Sul piano del bagaglio di esperienza, sia in campo che fuori, il periodo di Brescia è stato importantissimo. Anche Guardiola è una persona umile, oltre che, forse, il miglior allenatore al mondo. La sua umiltà dovrebbe essere d’insegnamento a tanti allenatori e tanti ragazzi”.
Fonte: Guerin Sportivo