I treni giusti. Che per un figlio di ferroviere sono quelli che non hanno una data certa: bisogna essere sensibili, sul pezzo, attenti ad evitare di rincorrere quel binario di rimorsi. Giacinto Facchetti, lungo tutta la sua carriera, ha corso come esattamente un treno e non è mai arrivato un singolo istante in ritardo: è stato puntuale in ogni partenza e ripartenza. Soprattutto, ha saputo adattarsi ai suoi limiti, a quel cambiamento che il tempo necessariamente porta con sé.
È stato simbolo dell’Inter, ma di lui tutti ricordano la generosità e la cura con cui ha indossato la maglia azzurra. Helenio Herrera, allenatore dell’Inter che l’ha lanciato nel grande calcio, disse di lui dopo il debutto in A non certo esaltante nel maggio del ’61: “Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter”. Non sbagliò, ma era un pronostico facile facile: quel ragazzone bergamasco, nato calcisticamente nella Trevigliese, era creatività e potenza. Era intelligenza. Ed era la fortuna dell’Italia intera.
E pensare che Giacinto nacque attaccante, e pensare che faceva anche parecchi gol. Da bomber alla Riva si presentò in nerazzurro, lasciandosi ammaliare dall’idea tattica di Herrera: il primo pensiero? Fu quello di arretrarlo e di schiacciarlo sulla fascia come una molla. Avanti e indietro, che poi era quel pezzo mancante dell’Italia di Edmondo Fabbri: appena trova un briciolo di continuità, Facchetti è subito catapultato in nazionale. È il 27 marzo del 1963 quando, contro la Turchia nel buio di Istanbul, indossa il tricolore da titolare: al suo fianco, capitan Maldini e Giovanni Trapattoni. Soprattutto Mariolino Corso, parte fondamentale della sua avventura in nerazzurro.
Oh, per il primo gol ci sarà da aspettare un po’. Un bel po’. Precisamente venti mesi e la Finlandia, arrivata in Italia senza aspettative e con fare da amichevole, pertanto rimandata indietro con 6 reti: la prima fu di Facchetti, che nel 1963 aveva già vinto uno scudetto e si sfregava le mani per la Coppa dei Campioni. Il terzino bergamasco è tanto giovane quanto un simbolo: lo vogliono tutti, Juve in testa. E lui? Niente, testardo. Fedele alle sue origini da lavoratore e da amante sincero.
Restava però un tarlo, come sottolinea nel suo articolo Cristiano Corbo: perché, almeno inizialmente non riusciva a dare lo stesso apporto anche in azzurro? L’Inter era la squadra più forte d’Europa, lui tra i punti di estremo talento di un gruppo solidissimo. Eppure niente, tra Mazzola e Fabbri non otteneva mai di raccogliere stesse lodi con l’Italia: presto il rapporto con il commissario tecnico s’incrinò, complici anche le critiche dei quotidiani. Ecco, dagli stessi quotidiani arrivò il colpo di grazia targato Facchetti: “Il vero calcio italiano? Quello dell’Inter, non della Nazionale”. Apriti cielo, venne fuori di tutto: compresa l’emarginazione di Fabbri nei confronti del gruppo interista, nata probabilmente dall’insoddisfazione del Ct dovuta all’impossibilità di replicare il modulo che aveva fatto grande Herrera.
“Il signor Fabbri ci proibisce di andare avanti, lui vuole solo pareggiare e con i soli pareggi non arriveremo da nessuna parte in Inghilterra”. Ah, che tempi. Quelli senza peli sulla lingua. Brera non tardò a definirlo Giacinto Magno, condottiero votato a una rivoluzione di uomini, non squisitamente tattica. Ai mondiali inglesi andò poi proprio come aveva profetizzato Facchetti: Urss e Corea fecero a brandelli la nazionale. Giacinto, a 24 anni, ne divenne improvvisamente capitano.
Nel ’68, la legge di Facchetti divenne la legge della nazionale: arrivò un Europeo insperato, ma guadagnato con una spregiudicatezza incredibile. Il grande merito dell’ex terzino fu quello di compattare il gruppo, di aprire la strada al cambiamento, di dare luce al talento. Poi, di scegliere bene il lato della monetina: perché, come gli storici del pallone sapranno, così l’Italia superò la semifinale. A scegliere fu il sangue freddo di Giacinto, il cui obiettivo era stato dichiarato ai quattro venti: cambiare la storia in Messico, nel 1970.
La gioia della cavalcata e l’amarezza per come andò a finire: Facchetti fu uno dei protagonisti di quell’Italia così sognatrice e così attorniata dai rimpianti. Celebre una frase che arrivò subito dopo la vittoria nella partita più bella della storia, quella contro la Germania del fatidico 4-3 azzurro: “In Inghilterra, dopo la Corea mi volevano dare l’ergastolo. Quando abbiamo vinto con la Germania in Messico, la polizia invece dovette fare un’operazione di sicurezza per evitare che prelevassero me e mia moglie per portarci in trionfo”.
Prima della gioia del 2006, il mondiale in Germania per gli italiani voleva dire soltanto delusione, rassegnazione, impotenza. Furono solo alcuni dei sentimenti provati da Facchetti in quel torneo, che pure aveva inaugurato con la speranza e con una squadra in grado di potersela giocare con tutti. Polonia e Argentina fecero smarrire il sogno, e proprio dall’obiettivo Argentina il 3 azzurro s’impegnò per l’ennesima ripartenza della sua carriera. Nel 1978, ci sarebbe stato un appuntamento da non perdere: sarebbe stato l’ultimo, grande evento di una carriera pazzesca. E l’avrebbe giocata da libero, il ruolo che aveva chiesto e ottenuto da Suarez.
Ma il fattore sfortuna esiste per tutti, anche per un volto immortale come Facchetti. In una gara con l’Inter, Facchetti subisce un grave infortunio da cui non riesce a riprendersi in tempo per l’avventura sudamericana. Bearzot vorrebbe convocarlo ugualmente, è lui però a fermarlo, a dire di non sentirsela: il recupero necessitava ancora di un po’ di tempo, avrebbe tolto spazio prezioso a chi avrebbe dato tutto per l’Italia. Un gesto da uomo, da capitano, da rappresentante fedele dello zoccolo duro che il Ct avrebbe poi portato alla vittoria quattro anni più tardi. Facchetti partì comunque: fu la prima da dirigente accompagnatore.
Il 16 novembre del 1977, dunque, non fu più una data come le altre: divenne l’ultima da giocatore della nazionale, 94 gettoni totali e la maggior parte – 70 – da capitano azzurro. Soltanto nove giocatori hanno più presenze di Giacinto, dal 1967 al 1977 leader indiscusso di quella squadra e di quella fascia, ereditata poi dal braccio di Dino Zoff