“Quando mi designarono, il giovedì, il vostro presidente Pertini chiamò Havelange. Era arrabbiatissimo, urlava. Diceva che mettere un brasiliano ad arbitrare la finale era una provocazione, che io mi sarei di certo vendicato del fatto che l’Italia aveva eliminato il Brasile”.
Ma lei questo come lo sa, Coelho?
“Me lo raccontò per filo e per segno tre mesi dopo il presidente della commissione arbitrale che era allora un italiano di Firenze, Artemio Franchi. Fui convocato in Italia a ottobre dell’82 per un’amichevole, Italia-Svizzera, e Franchi mi venne a trovare. Mi raccontò della sfuriata di Pertini, rideva tanto”.
Rideva, Franchi?
“Ma sì perché t’immagini?, mi diceva: cosa gli avrà risposto Havelange, brasiliano di Rio, a sentirsi dire che un arbitro carioca non sarebbe stato imparziale? Chi avrà urlato di più?”.
Non si vendicò, Arnaldo César Coelho, al Bernabeu.
“Solo chi non sa cosa sia un arbitro può pensare una cosa del genere”, sorride accomodandosi a prender nota dell’ultimo ottavo di finale del suo decimo mondiale. 79 anni, ha fatto anche il giudice tv nella moviola di Rede Globo, la più importante emittente tv latinoamericana. Una celebrità assoluta, si fermano le macchine per strada. Abbassano i finestrini per salutarlo, “Oi, Coelho”, i ragazzini gli portano i palloni da firmare. Negli annali è iscritto come il più grande direttore di gara brasiliano di tutti i tempi, tra i migliori del mondo. Semmai è rimasto a tanti il lecito sospetto che ci fosse una specie di segreta esultanza in quel suo gesto memorabile, quel fotogramma fissato indelebile nella retina di generazioni di tifosi: lui che fischia la vittoria dell’Italia di Pablito Rossi e alza il pallone al cielo come fosse una Coppa, la Coppa. “Anche questo è un equivoco”.
Non ci deluda, Coelho.
“Per me quello è stato il giorno che vale la vita intera. Ogni minuto ne ricordo ogni istante. Se vuole le racconto perché ho alzato il pallone”.
Davvero volentieri.
“Però mi deve aiutare. Deve immaginare un bambino di quelli di Copacabana, che vede giocare qui sulla sabbia, scalzi. Lo deve pensare a sei anni, poi a otto, a dieci. A sedici gli chiedono di arbitrare i tornei della spiaggia. Lui cresce sognando di avere un paio di scarpini, un giorno, e di entrare al Maracanã. Passano gli anni, arrivano le scarpe e anche il Maracanã. Già un miracolo, ma lui ora fantastica i Mondiali. Arrivano, nel ’78, in Argentina. E quel bambino che ormai è un uomo, ma è sempre un bambino, sogna la finale. Allora arriva quel giovedì, nell’82. Lo chiamano, gli dicono tocca a te. È il primo non europeo, il primo sudamericano ad essere designato. Io non so se lei riesce a capire. Quel ragazzino ero io. Avevo ancora sei anni, al Bernabeu”.
Sei anni, sì. E la finale di Coppa.
“Responsabilità, peso della Storia. E il miglior Brasile del tempo – Zico, Falcão, Sócrates – eliminato, e tutti i bimbi di Copacabana a guardare – a guardarmi – in tv. Fischio un rigore. Cabrini lo sbaglia. Nel secondo tempo l’Italia ha un’energia fisica formidabile. Si sente l’onda della forza. Attenzione, vigilanza. Passa il tempo, finisce. Ho già i polmoni pieni d’aria per fischiare la fine. Penso: voglio tenere questo pallone nelle mani. Lo voglio toccare. È un istinto, un impulso. Una cosa infantile. Non posso uscire dal campo senza averlo preso. Allora m’infilo fra due italiani, non ricordo chi, e mentre fischio, mentre esce il fiato, lo sollevo tra le mani. È un trofeo. È della mia terra, del mio popolo. Di tutti i ragazzini della spiaggia senza scarpe, del Brasile. È nostro, che siamo arrivati in cima al mondo venendo nudi, dal mare. E dell’Italia, certo. Ma anche nostro. Capisce?”.
La seguo perfettamente. Dov’è ora quel pallone?
“A casa mia. Eccolo, guardi. Me l’hanno firmato tutti. E io ho aggiunto il nome di ciascuno accanto a ogni firma. Conthi, vede? Forse il migliore”.
Senz’acca, se posso permettermi.
“Da noi serve l’acca. È per la pronuncia. Bello il pallone no?”.
Magnifico. Il miglior Brasile dell’epoca però eliminato.
“Il calcio è così. Non basta essere i migliori. Serve ma non basta. Guardi oggi”.
I migliori messi alle corde dagli ultimi arrivati sulla vetta.
“La Svizzera e l’Argentina. L’Algeria che poteva battere la Germania, davvero poteva. Oggi il futbol è globalizzato. Tutti giocano fuori, nei grandi club. Si conoscono, si calibrano. Tornano nelle nazionali per un mese ma vivono altrove. Non hanno paura, sono nel mondo. Fred è l’unico giocatore della Seleçao che gioca in Brasile. Cos’è l’identità nazionale in un calcio così? Esiste?”.
E l’arbitro, con l’elettronica, serve?
“È un ottimo tema. Serve, sì, ma con giudizio. Ai miei tempi un arbitro faceva 6 km a partita oggi ne fa 12. Il gioco è più dinamico, veloce, più fisico. Gli scontri fra giocatori si fischiano meno, il criterio è capire se sono intenzionali. Va bene l’elettronica alle porte, ma il resto è supplenza di lacune umane. Ora gli arbitri sono selezionati per condizione fisica, al mio tempo per vocazione e talento. Ora corrono molto e pensano poco, hanno un ruolo da polizia”.
Talento e polizia. Cos’è il talento per un arbitro?
“Reazione rapida, senso dello spazio e intuito, leadership. Buon senso, un arbitro non può aspettare che gli dicano com’è andata da bordo campo. Oggi sono insicuri, hanno paura. Lo spray è un modo per supplire al fatto che non hanno l’autorevolezza per imporre la distanza di 9.15, i giocatori avanzano. Allora che faremo presto, quando i giocatori protesteranno: gli spruzzeremo in faccia lo spray al peperoncino? È sbagliato, serve leadership. Poi certo si sbaglia, magari un morso non si vede e allora va bene la prova tv ma non dimentichiamo che il calcio è giocato da uomini e deve essere arbitrato da uomini”.
Coelho, com’è questo Brasile?
“Un po’ teso, nervoso”.
Può vincere?
“Non faccio pronostici. Un mondiale si vede l’ultima settimana. Prima è spettacolo e allenamento”.
Italia deludente.
“Vecchia. Ma non per età. Per pensiero di gioco. I vecchi di età – Pirlo, Buffon – ottimi, ma non reggono il ritmo. Bella testa, poco fiato. E poi chi ha fiato non ha testa. Non dovrei dire, ma mi dispiace”.
Dispiace che sia finita un’epoca?
“Io amo Italia. Sono tornato a Firenze in autunno per il matrimonio di un amico, sono andato nello stesso ristorante dell’82, Latini. Sono usciti dalle cucine ad abbracciarmi, abbiamo pianto insieme. Ma il mondo è andato altrove, serve capirlo. Non è nemmeno James Rodríguez, che ha fatto solo un bel gol. È che è tutto più veloce, tutto diverso. Bisogna avere gente nuova per capire. Todo cambia, tutto cambia”.
Cambia come?
“È il più bello di sempre, questo Mundial. Io ne ho visti dieci e altri ne vedrò, ma questo è il migliore dentro e fuori dal campo. In campo sorprendente, ogni partita giocata fino all’ultimo minuto senza possibilità di previsione. I piccoli e i grandi, il sud e il nord del mondo, i ricchi e i poveri. Fuori per l’allegria, che il Brasile è disordine e bellezza. Le proteste sono finite col fischio d’inizio, avete visto. Però il gioco, che è quello che conta, si fa in campo. E in campo passa un’energia nuova, che è la potenza del futbol. In campo vince chi ha lo spirito del tempo, chi dribbla e chi ha fiato. Pazienza se non è il più forte. Perde chi non ha capito”.
l’intervista è di Concita de Gregorio, Repubblica, 2014