Il primo Mondiale a ventiquattro squadre aveva espresso un primo verdetto: non si può rimanere al massimo della condizione per l’intero mese del torneo. Si sono infatti perdute per strada le squadre più brillanti della prima fase (Brasile e Inghilterra, le sole ad aver concluso a pieno punteggio il girone iniziale) sono arrivate alla finalissima due Nazionali che avevano paurosamente balbettato agli esordi.
La Germania Ovest aveva cominciato addirittura perdendo (e senza attenuanti) contro l’Algeria ed era stata rimessa in corsa soltanto dalla sospetta benevolenza dei cugini austriaci; l’Italia era uscita dalle secche di Vigo unicamente in virtù del gol in più segnato nei confronti del Camerun. Nessuno, allora, avrebbe scommesso un soldo bucato sul loro destino di finaliste. E invece eccole qui ad animare l’attesa di Madrid, meta di pellegrinaggio da parte dei tifosi italiani.
Entrambe le squadre, poi, avevano dovuto superare delicatissime polemiche interne. L’Italia, ferocemente sbranata dalla critica e contestata dall’opinione pubblica (aizzata da processi televisivi di dubbio gusto, poi velocissimi a voltar bandiera quando il vento aveva accennato a cambiare) si era chiusa in sè stessa, nei suoi pesanti silenzi. Né le vittorie erano valse a cambiare l’atteggiamento dei giocatori, cui questa sensazione del «soli contro tutti» aveva cementato la compattezza e la forza reattiva.
La Germania, invece, non faceva mistero della propria lacerazione in clan. Il ct Jupp Derwall aveva progressivamente perduto ogni autorità e capacità di controllo sui giocatori, la cui litigiosità esplodeva anche in campo in forme vistose. Anche per questo si poteva parlare di una finale atipica, nel quadro della eterna sfida fra Italia e Germania, ricca di episodi ancora impressi a fuoco nella memoria.
La vittoria, apparentemente agevole, sulla Polonia in semifinale, aveva chiesto agli Azzurri un pesante pedaggio. Antognoni era irrimediabilmente «out», ancora una volta la sfortuna si accaniva contro questo campione, impedendogli di raccogliere i frutti di un Mondiale complessivamente ben giocato (e proprio nei venti minuti iniziali contro i polacchi, prima dell’infortunio, Antognoni aveva fatto faville, mostrando una condizione in progresso).
Lo stesso Graziani, cumulando le botte recenti alla fatica di un torneo giocato sempre con abnegazione e sacrificio, mostrava evidenti limiti di usura. Bearzot non se la sentì di rinunciare all’apporto di «Ciccio», il cui lavoro sulla fascia sinistra aveva mascherato al meglio l’assenza di un uomo cardine come Bettega. Cosi Graziani andò in campo, mentre per sostituire Antognoni, Bearzot ricorse a un rimpasto interno, che gli consenti anche di irrobustire la copertura.
Fu confermato infatti in formazione il giovane Beppe Bergomi, che già aveva sostituito l’infortunato Collovati contro il Brasile e lo squalificato Gentile contro la Polonia. Con Bergomi sull’acciaccato Rummenigge (suo futuro compagno di colori nell’Inter), Gentile sullo sgusciante Littbarski e Collovati sul centravanti Fischer, Bearzot poteva cosi liberare da rigidi impegni di marcatura Cabrini, in modo da presidiare la fascia sinistra dalle incursioni dei difensori e dei centrocampisti tedeschi.
Nel corso di questo Mondiale, il ct azzurro era andato perfezionando un modulo di gioco, non inedito ma molto ben applicato, che poi fece il giro del mondo sotto il nome di «zona mista». Alle rigorose marcature individuali in difesa, infatti, l’Italia abbinava un più elastico schieramento in mezzo al campo, dove Tardelli, Antognoni, Oriali o Marini, si scambiavano posizione ed avversari, in simmetria con i ripiegamenti del tornante Conti e gli sganciamenti del libero Scirea.
Questo movimento collettivo si era rivelato preziosissimo dal momento in cui Paolo Rossi, ritrovata la condizione ottimale, aveva saputo sfruttarlo per micidiali e folgoranti incursioni nella retroguardia avversaria, imbarazzata dalla mancanza di punti di riferimento precisi. Bearzot, che aveva studiato attentamente il gioco dei tedeschi, era sicuro che prima o poi la macchinosità dei loro massicci difensori avrebbe offerto il fianco alle agili incursioni dei nostri; si trattava di arrivare a quel momento senza aver subito danni irreparabili. Ecco il motivo della scelta, apparentemente rinunciataria, di un difensore in più.
Dal canto suo, Derwall si era esercitato nei salti mortali per conciliare i suoi rissosi guerrieri. Dopo il miracolo della semifinale, Rummenigge – le cui condizioni di efficienza continuavano ad essere estremamente precarie – fu mandato ugualmente in campo dall’inizio. Bloccato in panchina, invece, Hansi Müller, per postumi di acciacchi e, più probabilmente, per incompatibilità con il «capopopolo» Breitner.
All’esplosivo Briegel fu affidato il compito più ingrato, quello di arginare le indiavolate iniziative di Bruno Conti. Sullo spauracchio Rossi andò il granitico Karl–Heinz Förster, forse il più forte e continuo stopper dei Mondiali. Clima di aperta ostilità per lo stravagante, ma dotatissimo, portiere Schumacher, che nella semifinale con la Francia aveva stroncato Battiston con un fallo da codice penale, attirandosi critiche severissime sulla stampa spagnola.
La partita, diretta dal brasiliano Coelho (giusto per far comparire il Sudamerica all’atto finale di un torneo tutto europeo) stentò molto a decollare. La Germania, secondo copione, assunse il comando territoriale delle operazioni, ma le contromisure di Bearzot si rivelarono azzeccatissime. Rummenigge non tardò a denunciare la sua insuperabile menomazione atletica. Incapace di scattare e affrontare contrasti robusti, si consegnò senza combattere nelle grinfie di Bergomi, a sua volta esemplarmente concentrato e sufficientemente rispettoso per non infierire sul grande avversario.
Dall’altra parte, dopo appena sette minuti, una vigorosa carica laterale di Breitner mise definitivamente fuori causa Graziani, vittima più dell’inevitabile logorio che dell’irruenza del tedesco. Al suo posto entrò Altobelli, più portato all’azione offensiva: ma la squadra seppe assorbire la variante senza denunciare squilibri.
Proprio mentre la Germania aumentava la cadenza della sua iniziativa, all’Italia si presentò l’occasione che Bearzot aveva previsto. Uno svelto contrassalto, lo scatto bruciante di Conti, la cui agilità era un perenne incubo per l’aitante Briegel. Sul piccolo azzurro lanciato in area, il tedesco rovinò con tutto il suo peso. Fallo più goffo e pacchiano che cattivo; tuttavia nettissimo, tale da non consentire a Coelho la minima alternativa.
Calcio di rigore e sul dischetto si presentò Cabrini, quando molti si attendevano Rossi, fresco, in condizioni e in corsa per il titolo di supercannoniere. Cabrini preparò il suo sinistro, ma la battuta risultò molto approssimativa. Venne colpito il terreno, prima che il pallone. Dal dischetto si sollevò una nuvoletta bianca. Mal indirizzata, la palla usci al di là del montante alla sinistra di Schumacher. Una mazzata che poteva abbattere un toro, ma l’Italia non mostrò di accusarla. I compagni si affollarono intorno a Cabrini per rincuorarlo, il terzino mostrò di averne bisogno.
Il primo tempo si chiuse sullo zero a zero senza ulteriori emozioni. Sugli spalti, i numerosissimi italiani si mordevano le dita; negli spogliatoi, Bearzot sprizzava tranquillità. Spuntata l’arma iniziale dei tedeschi, «sentiva» che la partita si sarebbe inclinata dalla sua parte. Il secondo tempo era cominciato da undici minuti, quando il destino della finale si colorò d’azzurro.
Gentile battè nel mezzo un calcio piazzato dalla destra, con effetto ad uscire. Si videro due maglie azzurre piombare sulla traiettoria, che ne risultò deviata alle spalle del pietrificato Schumacher. Sulle prime il gol parve opera di Cabrini, il più avanzato dei due giocatori italiani. Ma il diabolico Rossi, col suo straordinario tempismo, aveva bruciato anche il compagno, assestando al pallone il tocco decisivo.
L’uno a zero provocò scene di indescrivibile entusiasmo. Nel palco reale, il capo dello Stato Sandro Pertini offrì uno show indimenticabile. Derwall senti la disfatta piombargli addosso. Mandò in campo Hrubesch, il vecchio cannoniere, per Dremmler. La Germania si rovesciò in avanti ed era quanto Bearzot si attendeva. In quei minuti l’Italia dimostrò a tutti che il suo titolo mondiale era meritato. Governò la partita con stupefacente autorità.
Il regale libero Scirea usci dalla sua area palla al piede, attraversò il campo con falcata leggera, servì infine Tardelli, il cui diagonale perfido come una rasoiata inferse la seconda ferita a Schumacher. Mancavano ventun minuti alla fine. Rummenigge abbandonò il campo a testa bassa, era stato mandato immeritatamente al macello.
Entrò Müller, ma i giochi erano fatti. Anzi. All’80’ trovò gloria anche Altobelli, concludendo con una finta superba e un tocco rilassato una grande azione corale avviata dall’imprendibile Conti. Intorno scoppiava la festa irrefrenabile. All’83’ Paul Breitner trovò spazio per il punto dell’onore, trafiggendo con un rasoterra dal limite uno Zoff già immerso nel trionfo.
L’Italia era campione del mondo per la terza volta, quarantaquattro anni dopo l’ultima conquista. Altobelli lasciò il novantesimo minuto a Causio, chiamato a spartire la vittoria. Pertini volle riportare in patria gli Azzurri con l’aereo presidenziale mentre in Italia un delirio di bandiere avvolse l’entusiasmo popolare in una sorta di risveglio popolare. Una vittoria che chiudeva gli anni di piombo e lanciava la nostra penisola nel pieno degli anni Ottanta. I mitici ed indimenticabili anni Ottanta.