«È il novantesimo, perdiamo 3-2. Punizione per noi, decido di andare nell’ area italiana. Arriva il cross e vedo che il pallone viene verso di me. Lo colpisco proprio bene, al centro della fronte, con forza, verso la porta di Zoff. Per noi è gol, la torcida salta in piedi, è fatta. Ma vedo gli italiani urlare e protestare, poi da terra riemerge Zoff col pallone in mano che strilla ‘ No! No!’, l’ arbitro Klein gli dà ragione. Non era gol, infatti: vent’ anni dopo lo ammetto, la palla rimase sulla linea. Cinque centimetri più in là, solo cinque, e avremmo pareggiato e la nostra generazione avrebbe avuto una vita diversa. Invece fu sconfitta: non solo quel giorno, ma per sempre. In Brasile, ancora oggi, siamo quelli che hanno perso. Zoff disse che quella era stata la parata della sua vita. Viceversa, sarebbe stato il gol della mia vita. Cinque centimetri, e tutto sarebbe cambiato».
José Oscar Bernardi, per il calcio Oscar, era il difensore centrale del Brasile ‘ 82, quello che doveva stravincere i Mondiali. Poi al Sarrià trovò sulla sua strada Paolo Rossi e infine quella parata di Zoff, che provocò infarti in mezza Italia. Oscar, da allenatore, è stato uno dei tanti giramondo del pallone: ha allenato diversi anni in Arabia Saudita, a migliaia di chilometri da casa: in Brasile non c’ era spazio per lui, soprattutto se sei un antieroe, un perdente, un fastidioso ricordo da rimuovere.
A tutti questi anni di distanza, quel pomeriggio del Sarrià fa ancora parte, e in che modo, della vita del signor Oscar: «Eravamo bellissimi, mai giocato in una squadra così forte. In panchina Telê Santana, profeta del calcio spettacolo. Ma io glielo dicevo, a Telê, alla vigilia: ” Telê, pensiamoci un po’ ; non sarà un rischio buttarsi all’ attacco contro gli italiani?” E Telê mi rassicurava: “Vinciamo 4-0, nessun problema”. Ma i problemi arrivarono subito. Noi danzavamo col pallone, poi gli italiani in contropiede ci facevano del male. E certo: Leandro e Júnior attaccavano anche loro, io e Luisinho rimanevamo da soli contro Conti, Rossi e Graziani: un disastro. La sconfitta fu giusta. Dicono: si rigiocasse cento volte, il Brasile vincerebbe sempre. Falso, rivincerebbe l’ Italia perché noi non avevamo capito niente».
E poi? «Per noi quella sconfitta fu un marchio di infamia. Giocai ancora un po’ nel San Paolo, poi finii la carriera in Giappone, dove ho allenato pure per quattro anni. Poi sono andato nella penisola araba». È stata dura? «Abbastanza, infatti non stavo sempre lì: un anno, un anno e mezzo al massimo, poi dovevi staccare, la famiglia non poteva seguirti fino in fondo: troppo diversa la cultura, le usanze, il modo di pensare. Soprattutto per un brasiliano».
E il calcio? «Allora era ancora dilettantistico. Non c’ erano disciplina né professionalità, dovevo fare l’ allenatore ma anche il dirigente, il presidente, l’ accompagnatore. È stata dura, sì. Ma avevo un sogno: allenare in Italia. Incominciai ad imparare l’italiano. Ma nel 1998 smisi di fare l’allenatore». Cinque centimetri più in là, e adesso avremmo raccontatouna storia diversa. Ma con un brasiliano come protagonista.