Il 13 giugno di 40 anni si giocava la Coppa del Mondo in Spagna poi vinta dagli Azzurri. La situazione globale, le protagoniste e il malcontento che accompagnò l’Italia.
Tocca alla Spagna, nel 1982, aprire un nuovo decennio di storia dei Mondiali. Gli anni Ottanta cercano il fascino della novità, una spruzzata di ottimismo e leggerezza che lascia definitivamente alle spalle le tensioni sociali e la voglia di ribellione delle due decadi precedenti. Il mondo occidentale veleggia verso la vacuità spendacciona di un edonismo gaudente e festaiolo, mentre nell’Europa dell’Est si avvertono sempre più stridenti i cigolii che porteranno al collasso dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati. La Polonia, che tornerà sul podio della Coppa del Mondo, mette in gioco il suo destino e apre un sentiero stretto che mira al riconoscimento di maggiori diritti e di democrazia. Un esercizio pericoloso che si dipana su un sottile equilibrio di operazioni guidate dall’influenza politica del Vaticano e dal sostegno delle grandi potenze occidentali.
In un mondo ancora immerso nella guerra fredda, – come scrive il Guerin Sportivo – non è solo la contrapposizione tra Est e Ovest a mettere a rischio la pace tra i popoli. In Sudamerica i generali argentini giocano la carta delle isole Falkland-Malvinas per rinvigorire un consenso interno sempre più assottigliato. Riconquistare militarmente quell’arcipelago non dovrebbe essere un grosso problema, visto anche l’apparente disinteresse che dimostra la lontana Gran Bretagna per quei territori. Ma è un calcolo sbagliato: Margaret Thatcher risponde all’attacco, risollevando l’orgoglio di una nazione mai a suo agio nel dover rinunciare alle prerogative coloniali. La sconfitta è una spinta ulteriore che annega i militari nella spirale del malcontento popolare.
È la prima edizione dei Mondiali a ventiquattro squadre, soluzione democratica che consente al presidente della FIFA Havelange di ottenere i voti di un ampio numero di Paesi che ne garantiscono il potere. Le partite, Galizia a parte, si giocheranno in un clima torrido sui campi di ben diciassette stadi, dislocati in quattordici città.
L’Argentina campione in carica, probabilmente turbata dalla situazione politico-militare interna, si presenta in Spagna con pochi volti nuovi rispetto a quattro anni prima. Maradona fa il suo esordio in Coppa del Mondo, Kempes la saluta definitivamente: una transizione che quattro anni dopo riporterà l’Albiceleste sul tetto del mondo.
C’è l’Unione Sovietica futuribile di Rinat Dasaev e Oleg Blochin e c’è il Brasile scintillante di Telê Santana: da Leandro a Oscar, da Junior (regista sopraffino “costretto” dall’abbondanza di campioni a giocare terzino sinistro) a Cerezo, da Falcão a Socrates, Zico e Eder. Una squadra incredibile, che pratica un gioco tipicamente brasiliano, fatto di esibizioni e numeri frutto della tecnica assoluta di calciatori che insieme si divertono come globetrotter predestinati a una vittoria che nessuno sembra in grado di potergli sottrarre.
C’è la Francia di Platini (che farà le prove in vista di Euro ‘84) e la Polonia di Boniek, entrambi campioni in procinto di abbracciare la causa juventina. C’è la Germania Ovest, che l’Europeo l’ha vinto due anni prima, che nelle competizioni come i Mondiali rimane sempre ben più di qualche sporadica notte. E c’è l’Italia di Bearzot, che in Spagna ci arriva subissata dalle polemiche feroci di una stampa che si fa portavoce, amplificandola, di un’opinione pubblica mai così critica nei confronti degli Azzurri.
Il Mundial argentino sembra lontano anni luce. La squadra titolare, per sette undicesimi identica a quella del 1978, appare totalmente incapace di replicare gioco e risultati che in Sudamerica sorpresero tutti. Tocca al Vecio, inscalfibile dai sibili velenosi di una critica che si inoltrerà nel terreno del becero, alimentare il livello di autostima di un gruppo maturo che in quattro settimane toccherà il punto più alto del suo percorso agonistico.
Anche se nessuno, prima di Spagna ‘82, lo può sapere né immaginare. E, forse, nemmeno sperare, perché l’Italia è disabituata a vincere. Il Paese è segnato dagli Anni di Piombo, l’inflazione consuma il benessere e la nazionale di calcio non vince un Mondiale dai tempi del fascismo. Immaginare breve la spedizione in terra iberica non sembra un cedimento al pessimismo ma un esercizio da ragioniere. Per fortuna le traiettorie del pallone sanno sorprendere le regole della matematica: questo Mondiale resterà nella storia per dimostrarlo.
Le fotografie sono tratte dal “Guerin Sportivo”