Il muretto di via Vallicella non c’è più. Abbattuto, come capita a certi angoli del passato che conservano gelosamente i ricordi, finché possono. Finché non passa il vento gelido del cosiddetto progresso a spazzarli via in un amen. Via Vallicella, Reggiolo, era il mondo piccolo di Carlo Ancelotti. Il posto dove era nato sotto il sole di giugno del ’59, nel cuore di un’Italia contadina che accarezzava appena il boom economico ma ancora si affidava alle mani sapienti di una levatrice per far venire alla luce i suoi nuovi figli. Il posto in cui era cresciuto, bello e sano, in cui aveva mosso i primi passi e poco dopo tirato i primi calci. Un pallone e quel muretto, in fondo bastava poco in quel mondo di emozioni semplici.
Papà Giuseppe, uomo temprato alla fatica silenziosa che impone la campagna, quel figlio maschio lo sognava di notte e lo accolse con orgoglio. Ricordava sempre, senza bisogno di averlo davanti agli occhi, il muro che non c’è più. «Carlo ha passato l’infanzia prendendolo a pallonate. Cresceva forte, studiava e ci dava una mano nei campi, ma ogni tanto sentiva il bisogno di dedicarsi a quella passione. E io lo lasciavo fare. Figurarsi, ero malato di pallone forse più di lui». A forza di pallonate, anticipando i rimpalli e misurando traiettorie, il ragazzo impara l’arte. E capisce che quella è la strada, anche se qualcuno prova a deviare il suo istinto naturale. Come fa quell’amico di papà Peppino che a forza d’insistere riesce a trascinare il ragazzo a una corsa ciclistica valida per i Giochi della Gioventù.
Carlo – come racconta “Storie di Calcio” – si fa prestare una bici da corsa, si attacca il numero e vince. Ma questo non significa che sia nato un ciclista. L’esperienza resterà isolata, la passione è il pallone. E non c’è più solo il muro, adesso c’è una squadra intorno. Il Reggiolo, naturalmente. Carlo gioca nelle giovanili, e il talento si vede. Sulla schiena ha il numero nove, ma si capisce subito che va in campo per ragionare e coordinare. Anche perché la velocità non è esattamente il suo forte. Poi il Parma. In panchina è arrivato Cesare Maldini, che ha intuito le doti di centrocampista di Carletto ma anche il suo fiuto per il gol, e lo schiera come attaccante arretrato alle spalle delle punte di ruolo, Bonci e Scarpa. Il secondo posto conquistato nel girone A della C1 porta il Parma allo spareggio. A Vicenza, contro la Triestina, il diciannovenne Ancelotti è l’eroe della promozione: sull’1-1 segna la doppietta che regala la Serie B al Parma.
Quel giorno, in tribuna al Menti, c’è lo stato maggiore della Roma al completo: il presidente Viola, il tecnico Liedholm, il Ds Moggi. Liedholm vuole a tutti i costi il gioiellino del Parma, ma non è il solo. Le mani avanti le ha messe anche l’Inter, che addirittura lo ha vestito di nerazzurro in un’amichevole contro l’Hertha Berlino. Sembra fatta, ma a Milano temporeggiano e la Roma va avanti. Trattativa estenuante, il presidente del Parma Ceresini e il Ds Borea vorrebbero portarsi il campioncino tra i cadetti, ma Viola dà carta bianca a Moggi che spara alto: valutazione un miliardo e mezzo, per l’appena ventenne Ancelotti. Nelle casse del Parma finiscono 750 milioni per la metà del cartellino. Sembra una follia, sarà un colpo vincente.
La Roma in cui sbarca Carletto Ancelotti è un capolavoro in divenire, ispirato dalla creatività del Barone Nils. Passato il primo attimo di sbandamento, normale in un ragazzo che ha radici solide nel mondo contadino e non è mai uscito da una realtà di provincia, il pragmatismo del ragazzo si fa strada. Ci mette un niente a entrare nei meccanismi del gruppo, a farsi voler bene dai tifosi. Lo spettacolo è completo quando dal Brasile atterra a Fiumicino il divino Falcão, che diventerà presto l’ottavo re nei sogni della Capitale. E i sogni, insieme a Pruzzo e Conti, a Vierchowod e allo stesso Ancelotti, li trasformerà in realtà nella stagione ’82-‘83, quando la squadra vincerà uno scudetto storico dopo aver sfiorato il successo nell’81 e chiuso al terzo posto il campionato ’81-‘82.
Nel frattempo, Ancelotti si sarà fatto più forte anche attraverso l’esperienza del dolore. Il primo muro contro cui si schianta l’entusiasmo del ragazzo di Reggiolo si alza, gigantesco, il 25 ottobre dell’81. Un contrasto con Casagrande, mediano della Fiorentina, gli provoca una distorsione al ginocchio destro, con interessamento dei legamenti. Finisce sotto i ferri, avvia la fase di recupero e nel gennaio dell’82, durante un allenamento, ripiomba nella trappola: di nuovo i legamenti crociati che saltano, altra operazione. Il Ct azzurro Bearzot, che sta allestendo la squadra per la memorabile spedizione di Spagna ’82, non può certo attenderlo. E Carlo, che aveva debuttato in Nazionale strabiliando nella finale di consolazione del Mundialito (subito in gol contro l’Olanda quel 6 maggio ’81) perde una grande occasione.
La sosta è interminabile, ma quando rientra Ancelotti è quello di prima, semmai più forte dentro. Più equilibrato, se possibile. «Ero stato troppo fortunato: la Roma, la Nazionale, mi sembrava di vivere dentro un sogno. Ora mi sono svegliato. E dimostrerò che sono tornato». Ci riesce. E mette la sua firma e la sua impronta sul secondo scudetto della storia giallorossa. Ma il credito con la sorte è ancora aperto. 4 dicembre 1983, c’è Juventus-Roma, sfida tra regine degli anni Ottanta, Ancelotti contro Cabrini è uno scontro tra campioni concreti e leali. La botta è fortuita, l’esito da mani nei capelli: questa volta è saltato il ginocchio sinistro, la prospettiva è (minimo) un altro anno d’inattività, qualcuno dice che stavolta è finita davvero. La Roma va in finale di Coppa dei Campioni senza Carletto, e non è la stessa anche per altri motivi. Sta naufragando l’idillio tra il presidente Viola e Falcão, tra l’altro. In una serata stregata, quasi quanto la carriera dell’Ancelotti giallorosso, il Liverpool vince ai rigori e apre una ferita profonda nel cuore del tifo.
Intanto, dietro le quinte, Ancelotti sta molto semplicemente preparando l’ennesima rinascita personale. Alla faccia di chi non ci credeva, è di nuovo in campo nella stagione ’83-‘84, e da protagonista. In panchina Sven Göran Eriksson ha preso il posto di Liedholm, in campo Carletto, che comincia a fare da chioccia all’erede naturale, Giuseppe Giannini, è il leader di sempre. I giallorossi arrivano ancora a un passo dal titolo nella stagione ’85-‘86, cadono contro il Lecce e perdono il passo. È l’ultimo acuto. Ancora un anno nella Capitale e arriva il momento degli addii. Il presidente Viola pensa probabilmente di aver già spremuto il meglio dall’Ancelotti giocatore, a Milano, sponda rossonera, c’è chi la vede diversamente. Arrigo Sacchi è convinto che un giocatore così può far comodo al Milan rivoluzionario che ha in mente. Si convince anche il presidente Silvio Berlusconi, e l’affare va in porto. Il vecchio guerriero diventa l’uomo nuovo del calcio totale sacchiano, il suo miglior interprete e il perfetto collante tra tecnico e squadra. E, una volta di più, rinasce.
Dietro i successi del Milan olandese, ci sono un paio di certezze tutte italiane. Lo confessa lo stesso Sacchi, quando è in vena di confidenze. I pilastri della stagione della gloria si chiamano Franco Baresi e Carlo Ancelotti. Il profeta ha idee precise, non lascia nulla al caso, spesso le sue convinzioni sono esasperate. Ma la sua sincerità d’animo colpisce Ancelotti, carattere semplice, forte, temprato dalle sofferenze e votato al sacrificio. Quello che occorre a una squadra che va di corsa. Ancelotti si immola con passione alla causa, non va in cerca di gloria personale, gioca per il collettivo, aggredisce l’avversario che porta avanti il pallone. Sacchi confeziona le idee, Carletto le trasferisce sul campo e divulga il verbo in mezzo alla truppa.
Naturalmente, la sorte continua ad accanirsi contro di lui: nell’88, dopo un campionato europeo vissuto da protagonista con la Nazionale di Vicini, si blocca di nuovo per l’asportazione del menisco del ginocchio destro e salta l’appuntamento con le Olimpiadi di Seul. Un anno più tardi tocca al ginocchio sinistro, infortunatosi nel corso di Milan-Malines, quarti di finale della Coppa dei Campioni. Questa volta la sfortuna gli dà tregua: salta le semifinali ma fa in tempo a presentarsi in campo per la finale vittoriosa contro il Benfica, a Vienna. Gli anni rossoneri non gli lesinano sofferenze, ma gli regalano anche nuova linfa, e lo riportano nel giro azzurro. Così, a trentun anni, può finalmente affacciarsi alla ribalta mondiale, proprio sui palcoscenici italiani.
Una contrattura muscolare lo inchioda dopo il primo tempo di Italia-Austria, la delusione della comitiva per il mondiale volato via la vive da bordo campo e fa appena in tempo a rientrare per la vittoria contro l’Inghilterra, che vale un molto platonico terzo posto. Dopo la mezza delusione mondiale, alla guida della nave azzurra arriva proprio Sacchi, che non dimentica il suo pupillo e gli concede l’ultima passerella sul campo, ma soprattutto gli lascia intendere che da lì può ripartire il futuro nel calcio per un ex-giocatore che ha nei cromosomi la vocazione alla guida.
Nell’ultima stagione rossonera Carlo Ancelotti trova sulla panchina proprio Fabio Capello, timoniere nuovo che guida la squadra verso lo scudetto utilizzando con parsimonia il vecchio campione. Che d’altra parte sa adattarsi in maniera eccezionale all’impiego part-time, prendendo sotto la sua ala protettrice il giovane emergente e possibile erede Demetrio Albertini. Il commiato è degno di un fuoriclasse: 17 maggio ’92, si gioca Milan-Verona e Capello fa entrare Ancelotti a venti minuti dalla fine. Lui saluta il pubblico di San Siro con una doppietta fantastica che manda in delirio i tifosi. Non basta, a farlo tornare sui suoi passi.
Il futuro è già scritto. In panchina, da grande protagonista.