La scomparsa di Freddy Rincón riconduce inevitabilmente i ricordi a un tempo lontano e colorato, gli anni ’90 dei “Cafeteros”, quella nazionale, la Colombia, che riuscì a far innamorare di sé chiunque amasse il calcio inteso come gioco, addirittura un sollazzo da coltivare insieme, gioiosamente, come personaggi di un romanzo di Gabriel Garcia Márquez che all’improvviso scoprono un posto incantato.
Ed era davvero un incanto, quella squadra. Come ricorda Furio Zara nel suo articolo dedicato a Rincón. I tuffi da clown di René Higuita, le fughe senza vittoria di Tino Asprilla, il passo cadenzato – da aristocratico – dell’iconico Carlos Valderrama, immediatamente riconoscibile per via della folta e riccioluta chioma. Tra di loro, Freddy Rincón. Tre mondiali giocati – Italia 1990 (divenne un idolo in patria per lo storico gol contro la Germania al 90’), Usa 1994 e Francia 1998 – per un totale di 84 presenze e 17 reti con la “Tricolor”.
“El Coloso”, “Il Colosso”, come lo chiamavano per via del fisico scultoreo, aveva il passo da pantera e il tocco felpato, correva quasi senza sforzo e – sostenuto da quel fisico possente: 190 centimetri per più di 80 chili – faceva dell’inserimento in area avversaria il suo pezzo forte. Univa velocità e potenza, il limite – probabilmente – era la poca lucidità in area avversaria. Nessuno seppe mai con certezza in che ruolo giocasse, ed è la verità: stazionava in mezzo al campo, per definizione mezzala d’attacco, ma anche tornante all’occorrenza, persino regista avanzato o seconda punta. Ha avuto una carriera lunga (18 anni), giocando in Colombia, Spagna (Real Madrid), Italia (Napoli) e Brasile (Palmeiras, Santos, Cruzeiro e Corinthians, ultima squadra prima di tentare senza tanta fortuna la carriera di allenatore). Oggi sarebbe stato definito un centrocampista “box to box”. Preferiva trovare egli stesso la posizione in campo, con quell’istinto di chi è cresciuto per strada e sa riconoscere i cambi d’umore di ogni partita.
Freddy Eusébio Gustavo Rincón Valencia – questo era il suo nome completo – se n’è andato a 55 anni, per le conseguenze di un incidente stradale avvenuto a Calì, la città dove abitava. Era alla guida di un furgone con quattro passeggeri, fatale lo scontro con un autobus che arrivava dalla direzione contraria. Dopo qualche giorno in terapia intensiva della Clinica Imbanaco, la vita l’ha abbandonato. Era nato a Buenaventura, nella Valle del Cauca, proprio di fronte all’Oceano Pacifico, a cento chilometri da Calì. E nella squadra della sua città, l’Atletico, aveva cominciato a muovere i primi passi da professionista, prima di trasferirsi all’Indipendente Santa Fè, con cui aveva vinto il suo primo titolo. Nel 1990 – in concomitanza con i Mondiali delle “Notti magiche” – si era trasferito all’America di Calì, il club che in quel periodo era finanziato dai narcotrafficanti, i fratelli Gonzalo e Miguel Rodriguez Orejuela, che avevano compreso l’enorme potenziale mediatico del calcio e il conseguente favore popolare che alimentava. In un connubio di narcodollari e sangue, tra arbitri comprati – o uccisi come Alvaro Ortega – e partite aggiustate, Rincón con l’America Calì vinse due titoli nazionali. E fu la consacrazione, per un giocatore ormai pronto per l’Europa.
A Napoli giocò una sola stagione, campionato 1994-‘95, chiuso con un settimo posto. Gli stranieri erano Rincón, il francese Alain Boghossian e il brasiliano Andrè Cruz; ma lo zoccolo duro era formato dagli italiani, Cannavaro e Pecchia, Politano e Pari, Bordin e Agostini. Rincón chiuse l’anno con 27 presenze e 7 reti, secondo miglior marcatore della squadra, insieme a Cruz e dopo il “Condor” Agostini. Freddy abitava in via Nevio, al quarto piano di un palazzo dove vivevano anche altri calciatori. Non fu semplice adattarsi ai ritmi italiani, quando arrivava all’allenamento Freddy aveva sempre la palpebra a mezz’asta, zavorrata dalla stanchezza della notte passata chissà dove. In campo però si trasformava, era un trascinatore nato.
Che affrontava a muso duro ogni questione. Come quella volta a un’ora della gara di Coppa Uefa contro il Boavista. L’allenatore dell’epoca, Vincenzo Guerini, annunciò la formazione: “In attacco Benny Carbone e Rincón”. Freddy sbuffò platealmente, poi si alzò e disse davanti a tutti: “Non hai ancora capito che in attacco non devo giocare io? Se vogliamo vincere deve giocare il Condor Agostini. E io dietro di lui”. Guerini non la prese bene – “L’allenatore sono io e decido io” – e Rincón, per nulla intimorito, fece un passo verso di lui. La tensione era altissima. Si guardarono storto, ma era arrivata l’ora di scendere in campo e la rabbia di entrambi sbollì.
A ripensarci oggi, saturi e sazi come siamo di serie televisive che celebrano quelle “Narco-stagioni” colombiane, va detto che a connotare di fascino sinistro i Cafeteros nell’immaginario popolare fu proprio la vicinanza che i suoi interpreti avevano con i narcotrafficanti, da Pablo Escobar in giù. Da René Higuita a Tino Asprilla fino all’iconico Carlos Valderrama, i ragazzi di “Pacho” Maturana attraversarono quel decennio circondati da un’aura speciale. Promise molto, quella Colombia; senza tuttavia mantenere nulla. E legò per sempre la sua fama ad un omicidio. Accadde al Mondiale del 1994, negli Stati Uniti. Nella partita decisiva contro gli americani, Andrès Escobar aveva fatto un autogol che era costato l’eliminazione della Colombia dal torneo e – soprattutto – gli era costato la vita. I narcotrafficanti, da Bogotà a Calì, avevano perso milioni di dollari per colpa di quell’uscita di scena imprevista. Un mese dopo Escobar venne assassinato all’uscita di un ristorante di Las Palmas, alle porte di Medellin: a sparargli un commando di fuoco, composto da tre sicari.
Anche Rincón finì in quel cono d’ombra dove il crimine si mescola alla quotidianità. Nel maggio del 2017 – ricercato da tempo dall’Interpol – era stato infatti arrestato dalla polizia federale brasiliana di San Paolo. Pesantissima l’accusa: riciclaggio di denaro e traffico di droga. Più associazione a delinquere. Le indagini erano tese a dimostrare che l’ex calciatore – all’epoca dei fatti allenatore in Brasile per il São Bento – lavorava per il narcotrafficante Pablo Rayo Montano. Freddy lascia un figlio, Sebastián, calciatore pure lui, attualmente in Argentina, in forza al Club Atlético Barracas Central. Poche ore fa Sebastián aveva postato sui propri profili social una foto della sua mano che stringeva quella del padre, tra le pieghe della nuvola bianca di un lenzuolo d’ospedale.