Il primo «campeòn» della Libertadores fu il Peñarol, la squadra dalle casacche giallonere, club di antichissima tradizione, esattamente dal 1891 con la denominazione di C.U.R.C.C. (Central Uruguay Railways Cricket Club) poi, dal 1913, col nome attuale di Peñarol. Il curioso nome derivava dalla località dove sorgeva l’omonimo nodo ferroviario a nord di Montevideo, una località che aveva preso in precedenza — prima cioè dell’arrivo degli inglesi addetti alla costruzione del «ferrocarril» — il proprio nome da quello di Pietro Pignerolo, viticultore italiano, fra l’altro originario di… Pinerolo che, in quella zona, aveva impiantato numerosi filari di viti.
Senz’altro originale il motivo dell’adozione dei colori gialloneri (per i quali i giocatori sono detti «girasoli»), un motivo perfettamente in tono con la nascita «ferrocarillera» del club: infatti festosamente «pintada a listas amarillas y negras» era la locomotiva che, guidata dagli Stephenson padre e figlio in impeccabile smoking e guanti bianchi, aveva vinto, nel 1828 a Londra, una gara di velocità con altre cinque potenti vaporiere…
Il Peñarol campione della prima Libertadores del 1960 era un autentico squadrone-spettacolo che si era affermato vincendo il campionato uruguayano nel 1958 e nel 1959 e che continuò questo suo ciclo nazionale ancora per tre stagioni (‘60, ‘61, ‘62) stabilendo così un quinquennio tutto d’oro attesissimo da anni quale vendetta e rivalsa per l’analogo quinquennio 1939, ‘40, ‘41, ‘42, ‘43 degli eterni rivali del Nacional. Nel 1960, tecnico dei girasoli era Roberto Scarone, ex diligente centrocampista dell’argentino Gimnasia y Esgrima che aveva dato il cambio in panchina al difensivista Hugo Bagnulo, ex difensore di «garra» di Central, Defensor e della Nazionale Celeste.
Roberto Scarone, tecnico paternalista, assolutamente non «ditador», era un convinto offensivista che credeva fermamente, anche ai fini dello spettacolo, in un 4-2-4 classico ed ortodosso che si richiamava a quello del suo vero inventore, il brasiliano Francisco Martini che lo aveva lanciato nel 1951 portando, fra la sorpresa generale, il Vilanova alla conquista del campionato «mineiro».
Era un 4-2-4 puro, assolutamente non contaminato dalla contrazione in 4-3-3 con relativa ala che torna. Scarone voleva un 4-2-4 nel quale – componente in più ai fini di un gioco altamente offensivo – poteva avere ancora una sua funzione di guida il vecchio ruolo del centromediano metodista che, in tutto il Sudamerica, in quegli anni stava scomparendo per essere sostituito da quello, certo meno impegnativo, del centrocampista di difesa o addirittura da quello ancor più difensivo della cosiddetta «cabeza de area».
Il tecnico era quindi un convinto assertore del «4-2-4 y centromedio» ritenendo questo modulo il più adatto alla mentalità ed alle caratteristiche del giocatore uruguayano, al suo naturale talento, al suo temperamento, alla sua innata tendenza di «ballar futbol» per il dominio del terreno di gioco e per la necessità di pause sapienti, al suo desiderio – questo per la figura del «centromedio» – di avere sempre un autentico «caudillo» in mezzo al campo.
E Roberto Scarone aveva a disposizione, per la «camisa 5», un autentico gigante, un «gran capitàn», un «caudillo» per antonomasia: Nestor «Tito» Gonçalves, un «jefe» autentico per un ruolo che era sempre stato il vero e proprio posto di comando di ogni squadra uruguayana. Non per niente quando un altro favoloso «centromedio», José Santamaria del Nacional, aveva voluto abbandonare la «camisa 5» per quella 3 di puro e semplice distruttore centrale certo meno impegnativa e che gli doveva servire per durare più a lungo nel favoloso Real Madrid, lo scandalo tra gli irriducibili e romantici «tradicionalistas» di Montevideo era stato enorme.
Molti anni prima, nel 1934, quando, nello stesso Nacional, Miguel Andreolo detto «El Chivo», il caprone, ancora ragazzo, aveva dovuto ereditare la mitica 5 da Ricardo Faccio «caudillo» passato al calcio italiano, il futuro rossoblù bolognese (che incredibilmente nella stessa nazionale italiana avrebbe poi preso il posto dell’ex compagno diventando in seguito l’unico uruguaiano ad aver vinto il campionato del mondo in una nazionale straniera) aveva dovuto giurare nelle mani del tecnico Américo Szigetti la sua assoluta dedizione e fedeltà a quella «camisa 5».
Tutto questo fa ben comprendere quanto contassero nel Peñarol ‘60 del «tradicionalista» Roberto Scarone, il gioco e la figura del «capitàn» Nestor «Tito» Gonçalves, l’ultimo centromediano metodista del calcio uruguayano diretto discendente dei «caudillos» che, prima di lui, avevano creato ed onorato la «mistica de la 5» sia nel Peñarol che nella Celeste: José Duran, John Harley, Juan Delgado, Antonio Aguerre, Lorenzo Fernandez, José Maria Minella, Obdulio Varela. Tutte figure straordinarie caratterizzate dalla proverbiale «garra», dall’accentuato «caudillismo» in seno alla squadra, ma anche dal saper rendere il ruolo del «centromedio» il più importante ed il più prestigioso della squadra.
Roberto Scarone che aveva le idee molto chiare e che conosceva molto bene il calcio «gringo» al di fuori delle frontiere del suo Paese, propose subito, all’inizio del 1960, due acquisti che si riveleranno perfettamente azzeccati: quello di Alberto Spencer, il più grande calciatore ecuadoriano di tutti i tempi, una autentica tigre da area di rigore, «cabezador» eccelso, temibilissimo «hombre gol» e quello dell’argentino Carlos Linazza infaticabile corridore del centrocampo il quale accetta subito il sacrificio che il club gli propone: dovrà, ben ricompensato però, indossare la «8», sputare l’anima per una stagione intera poi, spompato, dovrà lasciare ad altri, per la stagione seguente, la «camisa 8»: patti chiari, amicizia lunga, molti dollari in anticipo.
Il Peñarol era quindi squadra ad alto tasso di sangue «gringo» nelle vene perché, oltre all’ecuadoriano Spencer ed all’argentino Linazza, brillava anche un brasiliano del Rio Grande do Sul, quel «Salvador» Alves da Silva che aveva militato, come centrocampista, nell’Internacional di Porto Alegre arrivando anche alla Seleção. Non certo ultimo, merita un cenno anche un ex gringo: Juan Eduardo Hohberg, discendenze tedesche, argentino-cordobès di nascita, ma rosarino d’adozione calcistica, assolutamente incompreso in Argentina.
Così in campo
Luis Maidana, detto «hombre gato » in porta, poi la linea dei quattro difensori formata da Edgardo Gonzales, William Martinez, «Salvador» Alves e William Aguerre con «Salvador» regista e costruttore che operava nella «zaga» giallonera, ma anche a sostegno del poderoso William Martinez difensore centrale detto «El cannòn» per i suoi rimandi tesi, violenti ma calibrati che data la potenza di… gittata risultavano veri e propri inviti per le quattro punte d’attacco. Queste erano sollecitate e orchestrate dal capitàn Nestor Gonçalves con alle sue dipendenze esclusive il fedele scudiero settepolmoni Carlos Linazza impiegabile, agli ordini del «caudillo», in ogni zona del campo.
In attacco una «delantera» di altissima classe e di sicuro rendimento che proponeva, da destra, Luis Cubilla (che, allora diciannovenne, si apprestava a diventare un vero e proprio «hombre-Libertadores», ala velocissima guizzante, imprendibile, autentica velenosa zanzara per le difese avversarie e idolo della tifoseria nerazzurra interista di Montevideo che lo aveva battezzato «Lorenzi II»), Juan Eduardo Hohberg (ormai verso i 34 anni ma sempre fedele al suo appellativo di «Verdugo», validissimo anche per una precisa questione di orgoglio visto che la Libertadores ’60 rappresenta per lui il canto del cigno, l’ultima sua prestigiosa conquista dopo tanti anni di Peñarol e di Celeste, Alberto Spencer («el goleador» — cannoniere della Libertadores e autore delle due reti nelle finali della Coppa contro la sorprendente Olimpia) ed infine, all’ala sinistra, Carlos Borges velocissimo «pondero».
Fra i rincalzi, due futuri campioni: Pedro Virgilio Rocha, allora appena diciottenne e che avrebbe avuto una carriera luminosa e lunghissima ed un difensore polivalente come il ventenne Roberto Matosas, anche lui destinato a brillanti affermazioni.
Il successo del Peñarol nella Libertadores ‘60 era anche una chiara ed evidente dimostrazione di quanto poteva essere utile l’immissione di più giocatori stranieri quando la scelta veniva effettuata, come nel caso di quel Peñarol (Spencer, Salvador, Linazza), con intelligenza e competenza.
La prima partita nella storia della Libertadores venne disputata il 19 aprile 1960 a Montevideo tra Peñarol e Jorge Wilstermann. Gli uruguaiani vinsero 7-1 con quattro reti di Spencer. In seguito, il Peñarol riuscì a superare il San Lorenzo vincendo dopo i tempi supplementari lo spareggio di semifinale, reso necessario da un doppio pari nelle due sfide precedenti, grazie a una doppietta del bomber ecuadoriano Alberto Spencer. I gialloneri furono favoriti dal fatto di giocare in casa, con il benestare degli argentini, questo terzo incontro che si sarebbe dovuto giocare in campo neutro. L’Olimpia di Asunción, nell’altra semifinale, ebbe la meglio sui colombiani del Millonarios.
Le due vincenti si incontrarono così in finale: nell’andata di Montevideo un gol del solito implacabile Spencer, capocannoniere del torneo con sette reti, diede la vittoria agli uruguaiani, mentre a Asunción un gol di Luis Cubilla a sette minuti dal termine sancì il pareggio che significava la vittoria della Libertadores, dopo che nel primo tempo i paraguaiani si erano portati in vantaggio con Recalde.
Il caudillo colpisce ancora
Nella Libertadores 1961 il Peñarol, ancora sotto la guida sapiente di Roberto Scarone e con Nestor «Tito» Gonçalves «caudillo » in campo, ripetè il successo dell’anno precedente. Un’affermazione anche questa, come quella dell’anno precedente, dovuta soprattutto all’avveduta conduzione del club. Il presidente Gaston Guelfi, oriundo genovese che aveva anche ottime qualità di tecnico avendo diretto con successo l’Allianza di Lima, ed il suo braccio destro Washington Cataldi in ossequio alla massima «los campeonatos se ganam en los periodos de pases» centrarono abilmente, come l’anno precedente, tutti gli acquisti.
Dal Boca Juniors venne acquistato un centravanti già nazionale uruguayano che l’anno prima dal Defensor — una delle piccole di Montevideo — era passato al calcio argentino dopo che si era rivelato come autentico «hombre-garra» nella Celeste: si trattava di José Sacía detto «El Guapo» che nel Peñarol 1961 prese il posto che era stato di Hohberg che aveva dato l’addio al calcio per dedicarsi all’attività di tecnico. Poi dal Perù arrivò un elemento di altissimo valore per sostituire Carlos Borges: Juan Joya che nel 1959 al XIX Sudamericano di Buenos Aires era stato, schierato da centravanti nel Seleccionado peruviano diretto dall’ungherese Jorge Orth, osannato come l’autentica «estrella» della competizione.
Per la «camisa 8» (quella del settepolmoni), al posto di Linazza stremato, arrivò un altro infaticabile operaio del centrocampo: Ledesma, autentico motorino. Sacía, Ledesma, Joya furono tre acquisti importanti e centrati in pieno, ma soprattutto l’arrivo del peruviano si rivelò azzeccatissimo perché il giocatore trova immediatamente l’intesa con l’ecuadoriano Spencer
Dato che il Peñarol 1961, rispetto a quello dell’anno precedente aveva un altissimo potenziale offensivo ed era quindi portato a sbilanciarsi in avanti, Roberto Scarone si preoccupò della difesa: il centrocampista brasiliano «Salvador» lasciò il posto di… «quarto zaguero» ad un vero difensore ossia Cano altro nuovo valido acquisto, in attesa della piena maturazione della riserva Roberto Matosas nel quale il tecnico intravedeva – previsione che si rivelerà azzeccata – un futuro grandissimo campione. Ledesma aveva il compito di coprire una area vastissima praticamente dalla zona di Cano (che non lasciava la difesa per avanzare come faceva «Salvador») sino agli spazi fra il centravanti Sacia ed il binomio Spencer–Joya con i due che giocavano in coppia ravvicinati sulla sinistra.
Le semifinali videro allineate le quattro squadre più forti, secondo i pronostici della vigilia. I brasiliani del Palmeiras, nelle file dei quali splendeva ancora la stella di Julinho Botelho, se la dovettero vedere con i colombiani dell’Independiente di Santa Fe, mentre il Peñarol si trovò a fronteggiare nuovamente i paraguaiani dell’Olimpia, sconfitti nella finale della prima edizione. A uscire vincitori dalle semifinali furono i brasiliani e i campioni uscenti, che si incontrarono così in finale. A Montevideo, nella partita di andata, il Peñarol ebbe la meglio grazie all’inevitabile segnatura di Spencer, mentre a San Paolo la rete di Sacia dopo due soli minuti permise ai gialloneri di alzare al cielo il trofeo per la seconda volta consecutiva.
Fonte: “Storie di Calcio”