Accidenti, ho perso il treno! Ora cosa faccio? Mi scoccia attendere il prossimo convoglio! Ma sì, oggi voglio uscire dalla solita routine: faccio quattro passi a piedi fino al semaforo dell’Albera e torno a casa in autostop. Sono gli ultimi giorni di questa quinta superiore I.T.I.S. Rossi di Vicenza e ai primi di luglio dovrò affrontare gli esami di maturità, poi anche il treno diverrà solamente un dolce ricordo. L’automobilista della Fiat 128 verde pastello, sporgendosi di lato verso il finestrino del passeggero mi chiede dove sono diretto.
Quando sente che vado a Thiene, prospetta con leggero sorriso di rammarico che mi può portare solo fino a Villaverla dove abita lui. Ecco perché si meraviglia, quando accetto ugualmente e mi fa salire a bordo ben volentieri. Ho controllato l’orologio, tradito ancora una volta dal riflesso condizionato di questa vita frenetica. Oggi, però, ho deciso che non mi faccio problemi di tempo: giunto nel paese dei quarei (mattoni)chiederò un altro passaggio per raggiungere la stazione di Thiene dove ho lasciato la bici. In alternativa, me la farò pure a piedi; alla fine sono solo sette chilometri. E sto lì, parlando del più e del meno, come si fa di solito, quando mi rendo conto di conoscere il cortese interlocutore che mi sta dando quello strappo in macchina…
Ora ricordo che indossava la divisa del direttore di gara. Sì, sì, è proprio lui! Dotato del canonico fischietto, vestiva la classica giacchetta, pantaloncini corti, calzettoni al polpaccio e scarpe bullonate, insomma, il solito look sobrio dell’arbitro di calcio rigorosamente color nero inchiostro. Aveva diretto una partita d’andata di quattro anni prima, del campionato 1968-‘69, quando militavo ancora nella squadra Allievi dell’Audace. Ma la cosa sorprendente era l’episodio avvenuto l’annata successiva 1969-‘70, quando giocavo il mio primo anno negli Juniores rossoneri del Thiene. Un episodio che apparentemente non c’entrava nulla con il mondo del pallone! Quella mattina mi ritrovai interrogato dal giovane fischietto, professore supplente di matematica, che sostituiva l’insegnante titolare in una classe di prima superiore dell’I.T.I.S. sezione staccata dei Giuseppini di Thiene. Ecco che il ricordo diventa sempre più nitido. In quella materia scientifica me la cavavo bene nei compiti scritti, mentre all’orale non convincevo molto, condizionato com’ero da un’innata timidezza penalizzante. Quel giorno la mia sorte sembrava segnata da una prova mediocre, quando il novello docente mi invitò a cancellare la lavagna per scrivere un’altra equazione. Sarà capitato anche a voi che il cassino, cancellino o come diavolo si chiama, strusciandolo sulla liscia pietra nera di lavagna a velocità supersonica, abbia inchiodato di colpo la sua corsa, sfuggendovi di mano. Ebbene, ero già preoccupato per l’esito dell’interrogazione, figuratevi quando avvenne l’inghippo sopra detto! Il momento era diventato tragicomico a causa di quella mia maldestra goffaggine, tanto che pensavo di aver compromesso il risultato finale della prova. Perso per perso, in quell’istante, l’istinto prevalse anche per il fatto inconscio di avere di fronte un arbitro di calcio e, prima che il piccolo oggetto tondo di panno grigio e morbido giungesse a terra, lo colpii palleggiandolo prima sul piede destro poi sul sinistro, destro e sinistro alternato, concludendo con un perfetto stop smorzato a seguire di ginocchio, per riprenderlo in mano senza troppo scompormi. Insomma, avevo eseguito un numero da fantasista della pelota più che da accademico della Scienza.
E stavo lì, tutto timoroso, attendendo il cazziatone matematico del docente sportivo che mi squadrava immobile tra il silenzio irreale sceso sulla classe, quando invece, a sorpresa, prevalse in lui, nel suo Io più profondo, la giacchetta nera dell’arbitro di calcio. Dopo un attimo di esitazione egli si rivolse ai miei compagni e cominciò un discorso filosofico, forse perché gli ero diventato pure simpatico, nel quale spiegava che il voto che avrebbe assegnato quella mattina dipendeva anche da quella mia reazione istintiva ad una situazione critica in cui mi ero ben destreggiato. Andava divulgando alla classe che con quella mia performance avevo dimostrato che in ognuno di noi esistono non solo variabili capacità scientifiche e innate doti umanistiche ma anche intelligenza corporea latente da sviluppare con l’esercizio e la passione. “Bravo! Bene Bonato! Con questa prestazione ti sei meritato un bel 7+!” All’affermazione soddisfatta del professore-arbitro seguiva l’ovazione da stadio dei miei compagni, mentre io, rosso in faccia e con leggero sorriso stampato sulle labbra, intimamente gioivo…
Siamo ormai in vista di Villaverla e, con un po’ di titubanza, chiedo: “Professore, la domenica fa sempre l’arbitro di calcio?” Lui mi guarda esterrefatto. “Sì, ora arbitro la Serie C…” e poi cercando di ricordare: “Mi sembrava che il tuo viso non mi fosse nuovo! Dove ci siamo già conosciuti?” Io gli spiego in breve il fatto che ora rammenta e con entusiasmo mi chiede come vado a scuola, con che squadra gioco e il dialogo scorre amichevolmente. Chiacchierando a ruota libera, però, mi accorgo che stiamo oltrepassando Villaverla e l’auto non si ferma. “Professore, guardi che lei è arrivato a casa! Mi lasci pure sulla statale!” “Permettimi di accompagnarti fino a Thiene: sono solo pochi minuti di strada.” “Ma, professore, non si disturbi!” “Non preoccuparti, questa chiacchierata mi ha fatto veramente piacere e ti accompagno volentieri.” A questo punto, un po’ imbarazzato, cosa potevo dire? “La ringrazio, professore!”
Giuseppe (Joe) Bonato