La sera del primo giugno 2019, la città di Mostar si è colorata di rosso. È questo il colore del Velež Mostar, la storica squadra di calcio della città, che quel giorno ha ottenuto la promozione nella serie A bosniaca chiudendo, sperano i mostarini, un periodo burrascoso che si protraeva dall’ultima guerra. Come ricordano Marco Ranocchiari e Lorenzo Pasqualini nel loro reportage sull’ Osservatorio Balcani e Caucaso, una folla festante di donne e uomini di tutte le età (tantissimi i bambini), si è riversata nelle strade della città, raccogliendosi in piazza Musala dove, in un tripudio di cori sulle note della Red Army Orchestra e nella nebbia dei fumogeni, si è cantato e ballato fino a tarda notte. Chi non indossava la maglietta ufficiale del club, con un pallone da calcio dentro una stella rossa, introvabile da giorni, portava una sciarpa o una giacca dello stesso colore.
La vittoria è stata netta, un 4-2 impartito all’Igman di Konijc che è valso il terzo posto in classifica. Ma l’evento per il capoluogo dell’Erzegovina, che stenta a superare le ferite della guerra degli anni ’90, con i suoi strascichi di divisioni etniche e perenne stallo economico, va ben oltre l’impresa sportiva.
“Mostar è tre cose: il Ponte Vecchio, il fiume Neretva e il Velež. Se ne manca anche solo una, non esiste Mostar”, dice Mustafa, che lavora nello storico circolo dei tuffatori della città.
Sin dalla sua nascita nel 1922, la squadra è stata caratterizzata da una forte componente multietnica e popolare. Messa al bando durante la Seconda guerra mondiale per via del suo orientamento antifascista, ha vissuto il suo periodo d’oro negli anni ’60 e ’70, vincendo due vittorie della Coppa di Jugoslavia e qualificandosi varie volte nelle competizioni europee.
Con la dissoluzione della Jugoslavia, il club entra in crisi. I giocatori sono coinvolti dal conflitto, e molti sono costretti a cercare rifugio all’estero. Lo storico stadio, il Bijeli Brijeg, ricade nella zona controllata dai croati, che lo destinano al club Zrinjski, punto di riferimento quasi esclusivo della componente cattolica della città. La rivalità tra le due squadre cittadine rispecchia le divisioni mai risolte dal conflitto, con un Velež che si trova, suo malgrado, a rappresentare prevalentemente i cittadini bosgnacchi, sebbene non manchi il sostegno di parte della comunità croata. Non c’è dubbio che il lavoro da fare a Mostar, però, sia ancora lungo.
Il dopoguerra del Velež è caratterizzato da bancarotte, scandali e delusioni. Mentre la città fatica a rialzarsi, il club scivola nelle leghe minori.
Sin dal 1995 i tifosi, nonostante le enormi difficoltà materiali del dopoguerra, si danno da fare per far rinascere la squadra di cui, ormai, resta solo il nome. Raccolte di fondi, donazioni anche di pochi euro, finalizzati a costruire pezzo per pezzo un nuovo stadio nel sobborgo di Vrapčiči, una manciata di chilometri a nord della città lungo la strada che porta a Jablanica e a Sarajevo.
Dopo ventiquattro anni, lo stadio Rodjeni non è ancora terminato, ma è stato in grado di accogliere i circa settemila tifosi che, da tutta la Bosnia e persino dall’estero, hanno assistito al match che ha riportato la squadra in serie A. Un match trasformatosi in una festa popolare, proprio alle pendici del monte Velež che dà il nome alla squadra.
Tra loro c’è anche Arman, gestore di un piccolo ostello e sostenitore del club, come tutta la sua famiglia, non sta più nella pelle. “Sembrava impossibile, ma abbiamo dimostrato che la città, quando è unita, può fare miracoli. Se è successo con il Velež, c’è speranza per tutta la città”.