Uno stopper duro, arcigno, ma corretto. Questo era Giancarlo Bercellino da Roasio, rimasto celebre con il soprannome “Berceroccia”, a testimoniare proprio la sua grande capacità di francobollatore integerrimo e attentissimo sull’uomo. Oltre a racimolare 154 presenze in serie A con la maglia della Juventus tra il 1961 e il 1969, Bercellino giocò sei partite con la maglia della nazionale. La prima fu contro il Galles, nel 1965, un’amichevole terminata 4-1 per gli Azzurri.
E poi ci fu la favolosa cavalcata dell’estate 1968, conclusa con l’oro europeo in finale sulla Jugoslavia. Finale che “Berceroccia” però saltò per infortunio. Un vero peccato perché fino a quel momento lo stopper titolare era sempre stato lui, nonostante una folta concorrenza, giocando con Cipro, Svizzera e Bulgaria. E nella durissima semifinale contro l’Unione Sovietica era stato uno dei migliori in campo. Niccolo Mello lo ha intervistato per “Game of Goals”.
Che ricordi ha di quell’Europeo?
“Circa vent’anni prima era finita la guerra. L’Italia nel calcio veniva da un periodo di forti delusioni, ripensiamo a cosa successe solo due anni prima con l’eliminazione dai Mondiali inglesi per mano della Corea del Nord. Era dagli anni ’30 che la nazionale non vinceva qualcosa. Sentivamo una grande responsabilità, anche perché giocavamo in casa. E percepire il calore del pubblico rappresentò per tutti noi una ulteriore spinta per farcela. Se ripenso a quei momenti provo ancora un’emozione fortissima”.
Con chi si è mantenuto in contatto in questi anni?
“I rapporti sono rimasti buoni bene o male con tutti. Con qualcuno ogni tanto ci si è ritrovati per qualche cena o ci si è sentiti al telefono. Ma il Covid ultimamente ha bloccato tutto. Non appena la pandemia sarà terminata vedrò di organizzare nuovamente”.
Contro l’URSS fu una semifinale durissima. Lei fu tra i migliori, una delle chiavi di un’eroica resistenza, che portò allo 0-0 e poi al “lancio della monetina” che ci portò in finale…
“Ogni gara all’epoca era tosta. I gironi non erano come oggi, dove c’è una lunga fase di qualificazione prima di una quasi altrettanto lunga fase finale. A quei tempi la vincente di ogni girone andava ai quarti. Noi nei quarti affrontammo la Bulgaria. Furono due partite tiratissime. Poi semifinali e finale in sede unica, in Italia. La partita contro l’Unione Sovietica fu durissima anche perché Rivera, il faro del nostro gioco, si fece male dopo un quarto d’ora. All’epoca non erano previste le sostituzioni, Rivera rimase in campo finché riuscì. Ci chiudemmo in difesa, impostati con il catenaccio, protetti dal mediano Ferrini e difendemmo lo 0-0 fino al 90′ e poi fino al 120′. A quel punto, non essendo previsti i rigori, ci fu il lancio della monetina che ci qualificò per la finale. Fummo anche fortunati”.
La finale contro la Jugoslavia fu un’altra battaglia…
“Servirono due partite per vincere. Io mi feci male, al mio posto giocò Guarneri dell’Inter. La Jugoslavia era forte, era una squadra molto tecnica. La loro ala mancina, Dzajic, ci mise in difficoltà: giocatore tecnico, veloce, elemento di gran classe. Riuscimmo a tenere l’1-1 nel primo match, poi a vincere 2-0 lo spareggio. Fu decisivo Valcareggi perché al posto di Rivera, che era un centrocampista, aveva inserito Anastasi, un attaccante. Mossa coraggiosa, non da tutti. Anastasi ripagò la fiducia del mister segnando un gol. L’altro fu realizzato da Riva, che era il nostro giocatore in più”.
Cosa rappresentava per voi Riva?
“Quando stava bene, era impossibile da arginare. Ti travolgeva. Era arrivato all’Europeo in grande forma. Aveva un sinistro devastante, ma poi anche corsa, personalità, potenza fisica: un attaccante completo”.
Meglio il calcio di oggi o quello dei suoi tempi?
“Mah, sono diversi. Oggi si gioca molto per vie orizzontali, si arriva in porta dopo una serie infinita di passaggi. Piacerà di più alla gente, forse. Io ricordo che quando giocavo io si puntava più sulla verticalità, con due-tre passaggi si arrivava in porta. Si badava maggiormente al sodo, era un calcio più concreto”.
Visto che lei è stato un difensore, trova che sia cambiato anche il modo di difendere?
“Sicuramente. Ai miei tempi il libero gestiva il reparto, lo stopper come ero io teneva d’occhio il centravanti. Oggi i ruoli sono intercambiabili, questa distinzione così netta non c’è più”.
Alcuni sostengono che oggi i difensori non sappiano più difendere, nel senso di marcare con attenzione. È d’accordo?
“Non saprei. Di certo non è vero il concetto che una volta si difendeva solo bassi e oggi più alti. Io ricordo che svariate volte mi trovavo a dover controllare il centravanti quasi a centrocampo…”.
Va ancora allo stadio o preferisce guardare il calcio in tv?
“Dopo il ritiro ho fatto l’allenatore per qualche tempo, poi mi sono dedicato alla mia filatura. Il calcio mi piace ancora, ovviamente. Guardo la nazionale e faccio il tifo. Ma oramai preferisco stare seduto comodo in poltrona e guardare le partite in televisione”.
Pur non avendo mai giocato in partite ufficiali con la maglia della Lazio fu uno degli acquisti che più scossero l’ambiente demoralizzato della Lazio nel novembre del 1970. Alle prese con i consueti problemi economici, il presidente Lenzini provò ad avere in prestito il forte difensore già juventino per metterlo a disposizione di Juan Carlos Lorenzo che lo richiedeva a gran voce.
“Se non posso acquistare una Ferrari, non mi dispiacerebbe averne una in prestito per un anno”. Con questa metafora l’allenatore argentino rispondeva ai giornalisti ed ai tifosi che gli chiedevano se si sarebbe accontentato del solo prestito del calciatore. In realtà quando Bercellino arrivò a Roma, dopo essersi presentato per accordarsi con la società, ripartì senza neanche effettuare le visite mediche e quindi non fu mai a disposizione della squadra.
Foto sotto il titolo: Italia e Unione Sovietica prima di scendere in campo per la semifinale. Bercellino è il quarto da sinistra