Il mercoledì cominciavano a non parlare, il giovedì avevano una faccia strana, il venerdì c’era il rischio di mettersi le mani addosso per una scemenza. E poi il sabato, il maledetto lunghissimo sabato dei pensieri, dei musi, degli sguardi lontani. I padroni degli scudetti diventavano d’improvviso vulnerabili, con quel Toro addosso che paralizzava, che toglieva il sonno e la voglia.
Roberto Bettega – come racconta Maurizio Crosetti – lo pativa più di tutti, unico torinese dentro il derby, il figlio del carrozziere cresciuto in barriera, abituato sin da bambino a confrontarsi con il colore granata, il colore di chi soffre una vita e si esalta un giorno, perché quel giorno è un po’ di vita. Adesso da ex è diverso. Non ci sono più Pulici, Graziani, Mozzini che lo riempiva di botte. Parla molto, dice poco o nulla Roberto Boniperti, Giampiero Bettega.
“Dal presidente ho ereditato la voglia di vincere sempre. Difficile vivere questa partita da semplice spettatore impotente”. Non è la Juve di Bettega, non era la Juve di Boniperti. Era ed è la Juve. Questo rimane, oltre le persone. Il presidente ha fatto tanto, tantissimo, anche troppo. L’Avvocato. Poi Umberto, l’equilibrio di un mondo che si è spostato. I ricordi sfumano, leggeri come nuvole.
“Mozzini mi faceva soffrire, Pulici segnava sempre. Ripenso al mio primo derby, un gol e una vittoria ma non si trattava del campionato, era la Coppa Città di Torino. E non posso dimenticare l’ ultimo, 27 marzo ‘ 83: stavamo vincendo 2-0, finì 3-2 per loro con tre reti in tre minuti”. L’ anno di Atene, l’ anno dell’ addio. “È vero, in noi bianconeri è sempre scattato qualcosa di strano alla vigilia del derby, come un blocco psicologico”.
Perché lo sentivamo, perché quello non era ancora un calcio solo mercenario. Bettega ha pagato la sindrome-Toro anche a livello statistico: venticinque derby, sette vinti, otto pareggiati, dieci perduti con la miseria di quattro gol in tutto. “Questa per noi juventini è sempre stata una partita con almeno due significati: la classifica e l’ orgoglio”.
Forse, sono cambiati i tempi e nessuno patisce più, nessuno distingue più. Nessuno è più capace dell’ estremo lusso della debolezza. Giocatori impermeabili, col cuore di plastica.
E poi c’ è quella brutta storia con Agnolin, quella disfida con minacce e pubbliche denunce. Stagione ‘80-‘81, derby d’andata: un gol sospetto annullato ai bianconeri, un gol sospetto concesso ai granata che vincono 2-1. S’infuria persino Zoff, reagisce l’ arbitro (“Vi faccio un culo così”) con una frase che oggi farebbe sorridere pure una maestra d’ asilo mentre allora, scatenò il finimondo. Proprio Bettega portò quelle parole fuori campo, le consegnò ai giornali e alla tivù attraverso il Trap. La tivù. Il Trap: “Ha sbagliato tutto, si merita un quattro in pagella”.