Parla a voce bassa, Aldo, cadenzata. E chi non lo ha mai visto perforare la rete con un bolide da trenta metri può incorrere nell’imperdonabile errore di confonderlo con un comprimario, tanto è delicato nella ricostruzione dei fatti. Riconosce le doti dei compagni con cui ha scambiato il pallone, la generosità dei presidenti che lo hanno voluto, la grandezza di chi lo ha allenato. Racconta la propria storia con riconoscenza, come se la sua straordinarietà non fosse un merito ma un regalo della sorte. Eppure – come sottolinea il “Guerin Sportivo” – tra le pieghe delle sue emozioni sussurrate, si avverte la forza della consapevolezza e la meraviglia di chi ha vissuto un grande amore.
“Tra il tiro e il cross, scegli sempre il primo”, gli dice sorridendo il Barone. E il giovane Aldo Maldera non se lo fa ripetere, perché nelle fessure dello sguardo di Nils Liedholm sa di leggere la chiave del proprio futuro. Esplode sulla fascia, punta l’avversario. Ha dribbling, potenza di tiro e precisione. Più che un terzino sembra un attaccante prestato alla difesa. Sono tempi in cui o si attacca o si contiene. Ma Maldera gioca d’anticipo e incarna anzitempo il più moderno degli esterni. Mancino, non è solo il terzino fluidificante di ispirazione olandese, ma un vero e proprio bomber, difficile da contrastare, impossibile da prevedere.
Inizia a giocare a Cusano Milanino – il paese di Trapattoni – mentre sull’altra fascia cresce Lele Oriali. Va al campo di corsa, ogni giorno. Da Bresso a Cusano con un paio di panini e un ghiacciolo. All’oratorio conosce la sua futura moglie. È lì che fa il gradasso con i fratelli, tirando bordate imparabili, quando in porta a sfidarlo arriva una ragazza. Con la serietà di chi gioca una finale, dichiara allora che, in caso di gol, la porterà via con sé. Inizialmente destinato all’Inter, viene segnalato al Milan dai fratelli Gino e Attilio già in forza ai rossoneri.
Diventa Maldera III e approda alla corte di Nereo Rocco. L’esordio in campionato ha dell’incredibile: è il 26 marzo del 1972 e Rivera è indisponibile. Il Mister gli mostra la maglia numero 10: “La conosci? Guardala, perché ti porterà bene”. Aldo è paonazzo; non riesce a realizzare di essere compagno di squadra di tale mito. Quando lo incontra, ancora lo chiama “Signor Rivera”. Inutile che questi protesti: “Senti, sono Gianni”. Il meglio che il ragazzo riesce a fare è rispondergli “va bene, signor Gianni”. In coppia scrivono la storia di quegli anni rossoneri. Aldo difende, ma poi tira e segna; tanto, per il suo ruolo tantissimo. Nell’anno dello scudetto della stella è vice cannoniere della squadra: le sue 9 reti stagionali hanno un peso specifico pesantissimo.
Quando Nils Liedholm lo incontra da avversario, in un Roma-Milan, lo prende da parte e lo sorprende: “Vieni a Roma e vinciamo lo scudetto”. Così è. Nela si sposta sulla destra con compiti di spinta, Maldera arretra la propria azione per dare equilibrio e copertura.
La Roma conquista lo scudetto e Aldo rimane esterrefatto. “Non ho mai visto nulla del genere – racconta – non pensavo potesse esistere un amore così grande”. Roma lo travolge. E lui ricambia mettendo radici, rammaricandosi di non essere arrivato prima e di non aver potuto regalare a questa piazza i propri anni migliori.
Si intenerisce, ripensando alle stagioni in giallorosso, poi si morde il labbro. Perché improvvisamente, nel silenzio dei ricordi, gli si spalanca la porta dei rimpianti che affaccia su Roma-Liverpool. Squalificato nella semifinale col Dundee, è costretto ad assistere alla gara con gli scarpini in mano. “Se ci fossi stato, avremmo vinto”, afferma con una serietà che non ammette repliche. “Falcão non poté tirare il rigore perché infortunato, io l’avrei messa dentro il sacco”.