Dalle panchine della serie A di calcio alla scrivania del Comune di Camposampiero, in provincia di Padova, dov’è nato nel 1949. Gianfranco Bellotto dopo aver guidato Venezia, Treviso e molte altre squadre è passato a guidare il suo paese come assessore allo Sport
Gianfranco Bellotto è uomo di sport. Lo è sempre stato, dagli esordi sui campi da calcio con la maglia del Giorgione fino alla serie A con Ascoli e Sampdoria, collezionando quasi 500 presenze nella sua lunga carriera da calciatore. Nella massima serie ci è arrivato anche da allenatore, nella stagione 2003-‘04 sulla panchina del Modena, dopo essere stato alla guida di squadre come Venezia, Treviso, Cagliari e Sampdoria. Ma Bellotto è anche un uomo legato al suo territorio e alla sua terra d’origine ed è per questo che qualche anno fa ha deciso di scendere in campo, questa volta politicamente, nel paese della provincia di Padova che, come detto, lo ha visto nascere e dove è nato anche Dino Baggio: Camposampiero. Dopo un quinquennio da consigliere, Bellotto è stato eletto nel 2009 e, a 62 anni, aveva ricoperto la carica, ovviamente, di Assessore allo Sport. L’Assessore e il Mister, Gianfranco Bellotto, politica e calcio viaggiarono in parallelo. Il Bellotto in politica ce lo ha raccontato Luca Candido.
Bellotto, come è passato dal calcio alla politica?
«Sono stato coinvolto da alcuni amici e mi rendeva felice l’idea di poter dare il mio contributo a Camposampiero, il paese dove sono nato e di cui sono innamorato. Sono soddisfatto di questa esperienza, ma il mio lavoro è fare l’allenatore. Nella mia testa il pallone viene subito dopo la mia famiglia, anche se considero una seconda famiglia questa amministrazione, i miei concittadini e i dipendenti pubblici, persone con le quali è un vero piacere lavorare».
Quali sono le difficoltà che ha incontrato passando dal campo alla scrivania?
«Imparare il cosiddetto “linguaggio della politica” non è stato semplice, ma anche quello mi è servito per comprendere questo mondo».
C’è stato qualcosa della sua esperienza da calciatore e allenatore che le è servito in politica?
«Il buon senso nel gestire un gruppo, cercando di essere permissivo e saper mediare tra persone che hanno caratteri diametralmente opposti».
E invece, una cosa che ha imparato in questi anni e che le potrebbe essere utile come allenatore?
«Tante piccole cose che è difficile elencare. Per esempio, essere meno impulsivo e più riflessivo».
Quali sono state le sue soddisfazioni più grandi, nella carriera sportiva e in quella politica?
«Da calciatore, arrivare in serie A dopo tanta gavetta, restarci cinque anni consecutivi e diventare anche capocannoniere dell’Ascoli nella stagione 1979-‘80 con undici gol, anche se me ne hanno attribuiti otto perché allora ogni tiro deviato era considerato autogol. Da allenatore, sedere su una panchina di serie A, a Modena. Da politico, la soddisfazione più grande è sapere di aver dato una mano a qualcuno, aver aiutato una persona in difficoltà. È l’aspetto più gratificante della politica, per me è come fare un gol o vincere una partita».
C’è invece qualche rammarico?
«Solo uno: quando a 38 anni, sul finire della carriera da calciatore, ho lasciato la Sampdoria per giocare di più, senza ascoltare il consiglio di mia moglie. Col senno di poi non lo rifarei».
Nel futuro si vede più come allenatore di calcio o come amministratore pubblico?
«Mi vedo più come allenatore. Sto aspettando la chiamata giusta, un progetto serio dove ci sia programmazione e organizzazione, non importa la categoria».
E se la “chiamata giusta” arrivasse proprio adesso, prima della scadenza del mandato elettorale?
«La prenderei e a malincuore sarei costretto a rimettere il mio mandato. Per me il calcio è tutto».
Quando allenava il Venezia, agli inizi degli anni Duemila, ebbe in squadra Amantino Mancini, che solamente un anno dopo avrebbe fatto le fortune della Roma, ma lui non si accorse delle sue qualità. È questa l’accusa mossagli nell’ormai lontano 2003. Per lui era solo un funambolico dribblomane brasiliano, un “venezia”, uno che si lasciava andare a numeri e numeretti, dedito esclusivamente a leziosismi ed estetismi pallonari fini a se stessi.
“Il calcio italiano è un’altra cosa”, andava dicendo Bellotto, che riprendeva il giovane Amantino anche per la sua prerogativa di toccare il pallone quasi esclusivamente di esterno, cosa che dalle nostre parti non si era mai visto.
E Bellotto incassò anche la solidarietà di Fabio Capello. Può sembrare allora uno convenzionale il buon Bellotto, quasi all’antica, merito (o colpa?) di quella carriera vissuta sempre in provincia, prima da giocatore e poi sulla panchina. Insomma, l’uomo di un calcio tutto pasta e fagioli.
Il 29 agosto 2013 torna in panchina, al Ragusa, in Serie D in Sicilia, la sua avventura dura giusto un mese. Dopo ben sei anni dall’ultima panchina in assoluto e dopo quasi venti da quella biancoceleste , nel 2019, torna ad allenare il Treviso nel frattempo relegato nel campionato di Promozione veneta subentrando a Francesco Feltrin. Il 9 gennaio 2020 si con la squadra in zona playoff.