«Quella Juve vinse perché c’era lui: insegnava tecnica e trasmetteva entusiasmo».
L’importanza di avere un nonno. «Il mio diceva: non bisogna lamentarsi del brodo grasso». Gabriele Pin ha presente la scala dei valori fin dalle prime battute dell’esistenza. La sua era la generazione figlia del sacrificio. Famiglia del Veneto operaio: papà Giuseppe alla Snia-Viscosa, mamma Maria in un’industria tessile. «Infanzia serena, anche se non c’era il benessere di adesso. I miei genitori erano usciti con la fame dalla guerra e non volevano che toccasse ai loro figli. Certo, il superfluo non esisteva. Mio papà a 30 anni ha avuto un incidente quando era muratore, è rimasto sotto una casa. In eredità ha avuto un’andatura claudicante. I loro sacrifici li hanno pagati con la salute».
Gabriele Pin – come sottolineato da “Storie di Calcio” – è stato un giocatore anomalo. Serio, cortese, nei lunghi viaggi stava immerso in un buon libro. «Purtroppo lo stereotipo del calciatore stolto l’abbiamo creato noi. I ragazzi di adesso mi sembrano diversi. Io alle partite a carte ho sempre preferito la lettura».
Linea di partenza: i campetti dell’oratorio della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo a Vittorio Veneto. Seconda tappa: la «Vitt ’66», squadretta del quartiere. Tutta la trafila. «Anche se ero più piccolo si capiva che avevo qualità, così cominciarono i provini». A volte la strada di un uomo è decisa dal caso, nel calcio spesso è il tifo a fare da spartiacque: Beppe Zanette, professore di italiano e suo allenatore di allora, era un tifoso bianconero sfegatato, con tanto di tessera del club locale. Lo spinge verso la Juventus.
A 13 anni Gabriele prende la strada di Villar Perosa, destinazione l’ultimo piano (e mansarda) dell’albergo storico ritiro bianconero. Lassù vivono i 30 ragazzi del settore giovanile. Non è una vita facile, non è una vita allegra, soprattutto è una vita trafficata. Al mattino Villar-Pinerolo-Villar per la scuola («chiusa con rammarico in terza ragioneria»), «pranzo con l’imbuto», al pomeriggio Villar-Torino-Villar per l’allenamento. Gabriele ha appena perso sua madre Maria e il signor Giuseppe non vorrebbe lasciarlo andare, ma la passione del figlio è a prova del primo terribile anno. «Ho vissuto travolto dalla nostalgia e scosso dal pianto. Mi hanno sostenuto la forza di volontà, i consigli della società e l’amicizia con altri ragazzi della mia età, tra cui Galderisi». Ma i singhiozzi del ragazzo di Vittorio Veneto finiscono quando la vita del calciatore diventa la sua vita.
Esordisce in serie A nel 1980. poi lo mandano a «fare esperienza». «In serie C, allora, non giravano le cifre pazzesche di adesso. Con un posto da titolare portavi a casa uno stipendio che ti permetteva di mantenere una famiglia di quattro persone. Per cui c’era un nonnismo che neanche a militare s’immaginano. Una vera giungla, bersagli preferiti i giovani che arrivavano dalle grandi squadre. Ora lo chiamano mobbing, ma non rende l’idea. Ho vissuto certe storie. A Sanremo un allenatore, Canali, ci faceva fare yoga. A Forlì c’era il mitico presidente “Vulcano” Bianchi: la sede era più grande di quella della Juve. Falliti e retrocessi, ma non prima di soffiare quattro punti al Rimini di Sacchi. Tra andata e ritorno feci tre gol: Arrigo me lo rinfaccia ancora adesso. Un’esperienza formativa: ero considerato un giocatore di qualità ma di poco carattere. Me lo sono fatto».
In mezzo alla sua lunga carriera c’è quell’unico scudetto, annata 1985-‘86. Per caso, veramente. «La Juve aveva ceduto la metà del mio cartellino al Parma, pensavo fosse l’anticamera dell’addio, invece mi ricomprarono». Era l’anno dell’ultimo scudetto di Trapattoni con la Juve.
«Squadra rinnovata, alcuni vecchi e molte facce nuove. La garanzia era il Trap. Si fermava un’ora in più sul campo con i giovani a insegnare tecnica. Ho un bellissimo ricordo e conservo una convinzione: non è facile vincere, nemmeno se hai grandi campioni in squadra».
A fine campionato se ne va il Trap e se ne va anche Pin. Sei anni (quattro da capitano) alla Lazio. Quattro al Parma, diventata ormai la sua casa, finale di stagione al Piacenza. Fare l’allenatore è la logica conseguenza di una vita da centrocampista e da uomo illuminato. «Ricordare la fatica è la chiave giusta: i primi soldi li ho fatti dopo anni, per questo ne conosco il valore».