La fotografia reca la data di domenica 17 febbraio 1980. È stata scattata a Rio de Janeiro, durante il Carnevale. Sopra il carro della scuola di samba Mangueira c’è un uomo seduto, con le gambe abbandonate e lo sguardo assente: è vestito con la maglia del Brasile, i calzoncini, i calzettoni e le scarpe da calcio ai piedi. I suoi occhi fissano un punto indefinito dell’orizzonte, laggiù dove nessuno di coloro che osservano può arrivare.
Quell’uomo – come scrive Andrea Schianchi sulla “Gazzetta dello Sport” – è stato un eroe, un campione del mondo, un fuoriclasse assoluto, un sogno per i bambini e per i loro padri, persino un simbolo di riscatto sociale. Si chiama Manoel Francisco dos Santos, ma tutti lo conoscono come Garrincha: la migliore ala destra di tutti i tempi. Ora lo portano in giro per le strade del Carnevale e gli fanno guadagnare qualche soldo per sbarcare il lunario e pagarsi un altro giro di birra. Il suo fegato è a pezzi, i dottori non gli regalano speranze, la mente è offuscata dai troppi tranquillanti che gli alleviano il dolore dell’anima, le gambe non lo sorreggono più e gli amici, anche quelli più cari, si sono allontanati. La gloria è come il sole: quando ci si avvicina troppo, ci si brucia.
Chissà che cosa pensa Garrincha, mentre il carro lo trasporta e la gente lo applaude senza nemmeno riconoscerlo, perché è davvero irriconoscibile: ha quarantasei anni, ma ne dimostra il doppio. Non c’è traccia di sorriso sul suo volto, soltanto malinconia. Il tempo del trionfo non è che un ricordo ormai sbiadito, immagini che si sovrappongono nella memoria, il Mondiale in Svezia nel 1958, lui e Pelé che incantano l’universo, e poi il titolo del 1962 in Cile, quello che conquista praticamente da solo perché O Rei l’hanno azzoppato e allora lui, Garrincha, si carica il Brasile sulle spalle e lo trascina alla vittoria. I brasileiros lo avevano scelto come eroe, ancora più di Pelè incarnava il mito del calcio bailado, della fantasia al potere, del dribbling come atto di liberazione. L’allegria del popolo, lo chiamavano. E lui, di allegria, ne distribuiva in gran quantità. Prima del Mondiale del 1958 una speciale commissione medica istituita dalla Federcalcio brasiliana lo sottopose a un test d’intelligenza. Garrincha raggiunse il punteggio più basso: 38 su 100. “Non idoneo a partecipare alla manifestazione”, scrissero i dottoroni. Per fortuna il Ct Vicente Feola non li ascoltò e lo andò in campo.
Veniva da un paesino sorto ai margini della foresta. Madre casalinga, padre alcolizzato e lui costretto ad andare in fabbrica fin da ragazzino. Il calcio gli offrì una possibilità di riscatto. Aveva una gamba più corta dell’altra, si dice per colpa della poliomielite, e su questo difetto seppe costruire una carriera: faceva una sola finta, sempre quella, ma tutte le volte gli avversari abboccavano e lui se ne andava veloce come il vento lungo la fascia. A fargli avere il primo contratto con il Botafogo fu Nilton Santos, il terzino sinistro che, per la sua sapienza calcistica, era definito l’Enciclopedia. Durante un’amichevole gli toccò marcare quel ragazzo che sembrava arrivato dalla luna e non vide mai il pallone. Andò dal presidente e gli disse: “Compriamolo subito”. Cominciò così la carriera di Garrincha e il grande Nilton, finché gli fu possibile, lo scortò e lo protesse.
Un giorno lo vide in lacrime sulla panca dello spogliatoio, gli chiese quale fosse il motivo e Garrincha gli confessò di essere sul lastrico: non aveva più un soldo. Allora Nilton gli fece un prestito e, attraverso un amico banchiere, ogni mese controllò i movimenti del conto corrente.
Ma Garrincha, se era imprevedibile in campo, lo era ancora di più nella vita di tutti i giorni: in poco tempo anche quel gruzzolo si dissolse. Alcol a fiumi, belle donne, feste continue: non aveva limiti, e chi provava a mettergliene veniva regolarmente dribblato. Una finta, sempre la solita, e via.
Il Carnevale prosegue, il ritmo della musica è martellante, tutta Rio de Janeiro balla e Garrincha se ne sta sempre lì, con le gambe a penzoloni e la testa persa chissà dove. Forse pensa ai suoi quattordici figli, con i quali non ha mai vissuto e adesso nemmeno lo riconoscono. O rivede i volti e i corpi delle sue donne. Tante, tantissime. Nair, Iraci, una cameriera svedese, una fotomodella, una studentessa, e poi Elza… Com’era bella Elza Soares, la cantante! Dissero che da quando si mise con lei, era il dicembre del 1961, Garrincha non fu più lo stesso. “Gioca male, non dribbla più, non si allena, pensa soltanto ad andare a letto con quella!”, gridarono inviperiti i tifosi aizzati dalla stampa e dalla televisione. Elza fu bersagliata d’insulti, e poco importa che il Brasile trascinato da Garrincha vinse il Mondiale del 1962 e, soprattutto, che di quella Seleçao lei fu la madrina. Ma la cattiveria della gente non indebolì l’amore. Anzi: lo rafforzò. Un amore passionale, selvaggio, assoluto, a volte persino violento. Era l’unico modo che Garrincha conosceva per amare, come fargliene una colpa? Dilapidava se stesso quando giocava, e lo stesso faceva nella vita: mai che si sia risparmiato, mai che abbia detto “no”, mai che si sia tirato indietro. E anche adesso, nel Carnevale più triste, lui resta sul carro, fedele al personaggio che non è più, in attesa che arrivi qualcuno a dirgli che la festa è finita e c’è il conto da pagare. Il 20 gennaio 1983 salderà ogni debito, regalerà un’ultima finta e si consegnerà per sempre alla nostalgia.