Dai gol al fianco di Pulici, Pruzzo, Serena e Klinsmann alle magie con il beach soccer che ha importato in Italia facendolo diventare uno sport di culto. Maurizio Iorio non è un personaggio qualunque nel mondo del calcio e te ne accorgi solo sentendolo parlare. È uno vero. Che ricorda con amore il passato ma guarda dritto al futuro, apprezzando il presente senza smettere di viaggiare. Dodici le squadre in cui ha giocato da Nord a Sud passando per Verona, Bari, Milano, Firenze e Foggia. Ed è stato nella Roma di Falcão e Liedholm uno di quei protagonisti silenziosi ma determinanti. Nella notte della storica rimonta col Colonia, e nella conquista del secondo scudetto. Centoquattro i gol in carriera col picco dei 21 in 38 partite nel 1983-‘84 con la maglia dell’Hellas. Come ricorda il “Corriere dello Sport”, protagonista in Coppa Uefa anche con la maglia del Genoa (gol in semifinale all’Ajax) dopo averla vinta con l’Inter proprio a discapito della Roma nel 1991.
Un passo indietro, anzi un bel po’. L’8 dicembre 1982 l’Olimpico è strapieno e c’è da rimontare un ottavo di finale. Cosa succede al minuto 58’?
“Segno io dopo una magia di Conti e Di Bartolomei! Ma soprattutto succede che la Roma inizia ad avere una dimensione internazionale. Quella partita ha fatto diventare il club giallorosso una squadra di livello europeo. Ha dato la convinzione a squadra, città e tifosi di poter uscire dai confini. Fu una rimonta di gran carattere che ci ha uniti contro un Colonia fortissimo, c’erano sei nazionali e avevano tutti timore ad affrontarla. Senza quella partita probabilmente l’anno dopo la Roma non sarebbe arrivata in finale di Coppa Campioni”.
Poi ai quarti col Benfica non riuscì il bis.
“Anche quella era una squadra fortissima con Eriksson in panchina. La Coppa Uefa prima era una sorta di seconda Champions League. All’andata in casa nostra Filipovic sfruttò bene due occasioni ma fu una partita equilibrata. Al ritorno dovevamo rimontare di nuovo l’1-2 e giocammo una partita stratosferica a Lisbona. Non meritavamo di uscire”.
Dopo lo scudetto chiese di andare via, perché?
“A me andava di giocare, nella Roma arrivò anche Graziani e a 23 anni ero a un passo dalla convocazione in Nazionale. Il Verona di quei tempi era come l’Atalanta di oggi, stava per diventare grande e mi ha voluto con gran forza. Decisi di andare via e a Verona ho segnato pure parecchi gol”.
Poi tornò alla Roma perdendosi lo storico tricolore dell’Hellas.
“La Roma ha deciso di riscattarmi dopo il prestito ma quello era un anno strano. Venivo da un grave infortunio alla caviglia rimediato con la Nazionale Olimpica che di fatto aprì un calvario della seconda fase della mia carriera. Alla Roma c’era un po’ di caos con l’arrivo di Eriksson e troppi giocatori. Ho giocato poco e segnato meno. Ma non ho rimpianti, io posso solo ringraziare di cuore la Roma e tutto l’ambiente. Ogni volta che ci torno mi emoziono. Rifarei tutto”.
Ha giocato in 12 squadre diverse, ben sei prima dei 24 anni. Un’anomalia a quei tempi.
“Io non riesco a stare fermo in un posto, questione di carattere. Forse dovevo rimanere a Roma qualche anno in più. Giocare in tante squadre è stato un mix di meriti perché mi volevano ma pure di demeriti perché in alcune stagioni facevo male. Ho un bel ricordo di tutte le piazze, ora sto a Bari dove ci amiamo da matti”.
Bagnoli e Liedholm: per cosa ringrazia maggiormente il primo e per cosa il secondo.
“Liedholm lo ringrazierò infinitamente per tutta la vita, io non dimentico cosa ha fatto per me. Mi venne a prendere a Perugia di persona dopo una partita di Serie B che avevo giocato col Bari. Aveva uno charme che non aveva nessun altro e mi aiutò tantissimo. Ringrazio lui e Viola per avermi portato dalla B in una squadra magnifica con tifosi fantastici. Ho vinto uno scudetto a Roma, qualcosa di incredibile. Bagnoli però per me è stato il migliore”.
Perché?
“È una persona come me. Introverso, umile. Uno di poche chiacchiere e tanti fatti. E vincere quello scudetto a Verona è un fatto immenso. A lui sono legatissimo. Mi ha voluto al Verona ma pure al Genoa nel mio ultimo anno regalandomi una semifinale di Coppa Uefa contro l’Ajax dove peraltro segnai. Io non vivo più di calcio, io ricordo le persone. Quando si sgonfia il pallone poi non conta il calciatore o l’allenatore, contano le persone. E Bagnoli è nel mio cuore”.
Nanu Galderisi, Aldo Serena, Roberto Pruzzo. Chi segnerebbe di più nel calcio di oggi?
“Ringraziando Dio ho avuto la fortuna di affiancare grandi campioni. All’elenco aggiungiamo Graziani, Klinsmann, Pato Aguilera e chissà chi mi dimentico. Ovviamente Pulici, che è stato il più forte per me, anche più di Pruzzo altro bomber eccezionale. Oggi tutti questi farebbero 30 a gol a occhi chiusi ai quali bisogna aggiungere 8-10 rigori. Io ero rigorista e lo so. Ma ai miei tempi mica si fischiavano certi falli, oggi basta che cada un fazzoletto in area. Tra Var e altro si gioca molto meno e si fischia di più”.
Uno come Romeo Benetti ne giocherebbe poche…
“Ma quasi tutti, mica solo lui. Erano difensori che vivevano attaccati alla maglietta dell’attaccante, che non ti mollavano mai. Prendevo certe legnate che piangevo pure il giorno dopo”.
C’è un difensore che ha sportivamente odiato?
“Il più forte era Vierchowod. Il ‘russo’ era veloce nel breve, nel lungo. Era un fenomeno. Un altro arcigno da morire era Gentile. Non erano bravi a impostare come oggi, ma marcavano meglio. Oggi tanti allenatori vogliono impostare dal basso ma lo ha fatto davvero bene solo Guardiola col Barcellona. Lo fanno per far vedere che hanno l’impronta ma non liberano mai l’uomo davanti e così mettono in difficoltà la difesa. Guarda la Juve…”.