Lothar Matthäus è un furbacchione. Quando ai Mondiali del ’98 Berti Vogts lo mandò in campo nel secondo tempo contro la Jugoslavia, arrivò a cinque coppe giocate e disse: “Non sapevo che qualcuno ci fosse riuscito prima di me. Pensavo di essere l’unico, me lo ha detto Beckenbauer”. Invece lo sapeva eccome che c’ero già riuscito io, Antonio Felix Carbajal.
Ho giocato la mia prima partita al Maracanã e l’ultima a Wembley, diteglielo al signor Matthäus. Dal 1950 al 1966, cinque Mondiali di fila senza saltarne uno. El Cinco Copas, mi chiamano così. L’anno in cui l’Onu lanciò una campagna per l’ambiente, volle cinque calciatori a fare da testimonial. Sapete chi c’era? Maradona, Pelé, Cruijff, Keegan e io. Certo che mi conosceva, quel tedesco. Me la stava facendo pagare. Perché anche io ero nel ’98 in Francia. Da spettatore. Mi avvicina una tv e dico: “Spero che Matthäus non giochi neppure un minuto, così conservo il mio record”. Ma era una battuta. Lui se la prese. I tedeschi non li ho mai capiti. Quando scese in campo con la Jugoslavia, gli feci arrivare un bigliettino di complimenti e lo invitai a bere un bicchiere di vino rosso. Mi mandò a dire che beveva acqua minerale e poi raccontò quella cosa che non mi conosceva, Beckenbauer, eccetera eccetera.
In realtà da bambino mi piaceva giocare al centro dell’attacco. Come a tutti. La nostra palla era fatta con i rifiuti dei vicini. Un giorno nel barrio arriva da chissà dove un ragazzino con un pallone di cuoio. Un pallone vero. Pareva calato da Marte. Un antipaticone. Mi squadra da capo a piedi e fa, Se vuoi giocare con me devi andare in porta. Figurarsi. Per un pallone di cuoio avrei fatto pure il palo. In quel gruppetto l’altro portiere era José Alfredo Jiménez. Diventammo amici. Gli piaceva una ragazzina di Santa María la Ribera, la mattina passava da me e mi chiedeva di accompagnarlo a vederla. José sapeva scrivere canzoni. In porta fischiettava giocando. Poteva anche lasciare la partita e scappare all’improvviso a casa, per comporne una. Ispirazione, ispirazione, si scusava dopo. Un matto. Quante volte gliel’abbiamo detto: José, sei matto. Ma è diventato un grande. Il Messico ha perso un portiere ma ha trovato un musicista. (*)
Tre partite nel ’50, una nel ’54, tre nel ’58, tre nel ’62, una nel ’66. L’ultima non fu un regalo perché raggiungessi il record. Contro l’Inghilterra davvero s’era fatto male Nacho Calderòn, con l’Uruguay toccava a me. Ron Springett, uno dei portieri di riserva inglesi, fu molto gentile. Mi spedì in albergo un paio dei suoi guanti come regalo per la mia quinta Coppa del mondo. Solo che io i guanti non li usavo. Paravo a mani nude. I portieri scarsi usano i guanti. Li indossai quel giorno per non essere scortese, ma al primo intervento la palla mi scappò dalle mani, riuscii a riafferrarla un attimo prima che finisse in rete. Basta. Li tolsi e li gettai lontano. Un gatto con i guanti non acchiappa topi. E se Springett si offese, pazienza. Ho atteso 4 Mondiali per vincere una partita e sempre in Cile, nel ’62, piansi accanto al palo. Fu per colpa di un gol di Peirò. Nacho Trelles, il ct, si era raccomandato. In caso di calcio d’angolo, aveva detto, lanciamola al centro. Invece va a battere Del Águila e la tocca a Héctor Hernández lì vicino.
L’aveva visto solo. Aveva visto male. Palla intercettata dagli spagnoli e appoggiata subito a Gento. Che mette la testa a terra e scappa. Siamo stati dei gentiluomini, i gentiluomini nel calcio non fanno strada. Gento attraversò il campo con la palla al piede e nessuno gli fece fallo. Gridai a Jáuregui di chiudere, lui lo lasciò passare. Gento arrivò sul fondo, libero di metterla al centro e di andare ad abbracciare Peirò dopo il gol della vittoria. Più tardi Jáuregui mi fece una smorfia, disse che da un orecchio lui non sentiva, che avrei dovuto gridare dall’altro lato, allora sì che sarebbe andato a chiudere su Gento. Ecco, quel giorno ho pianto.
Quando dissi a mio padre che volevo fare il calciatore, mi cacciò di casa. Avevo 14 anni e una borsa di studio nell’istituto franco-spagnolo nel quale lui lavorava come autista del minibus che prelevava i ragazzi a casa. Di notte, per arrotondare, faceva il tassista. Non dormiva mai, mio padre. Non avrei voluto dargli quel dolore, ma quando avevo la testa sui libri al posto delle cartine geografiche io vedevo stadi di calcio, e palloni, e giocate di fùtbol. Dovevo cercarmi un posto dove dormire. Lo trovai nella vetreria di Pepe Sánchez, la sera mi coricavo sui tavoli di moquette che usava per tagliare le lastre. Insegnò il mestiere anche a me. Ero Toño, il ragazzo della vetreria. Ma Pepe Sánchez era anche il proprietario del club Oviedo. Con il calcio ho cominciato grazie a lui. Mi vendette al Club España in cambio di 11 palloni. Una squadra che ha bisogno di 11 palloni è una squadra di egoisti. Ero già bravino. Vennero a vedermi quelli del Club Deportivo Oro de Jalisco. Mi proposero di firmare per loro. Ci demmo appuntamento in un hotel. Quando arrivai, alla reception chiesi dove fossero i dirigenti del fùtbol. Primo piano, risposero, e io salii. Invece erano nella hall, al primo piano c’erano quelli del León. Che avevano un altro foglio pronto e un’altra penna. Firmai. Ho speso 16 anni della mia vita con il León. La fedeltà vale più dell’oro. Ma sono stato fedele per sbaglio.
Mio padre mi ha perdonato solo quando nel ’48 sono tornato dai Giochi olimpici di Londra. Credeva che il calcio fosse una cosa per sfaccendati, mi toccò nell’amor proprio, mi ha fatto crescere. Avrei forse potuto giocare anche il sesto mondiale, quello che il Messico nel ’70 organizzava in casa. Chiesi al ct meno routine, per trovare stimoli. Così iniziai ad allenarmi con un pallone di football americano, ma onestamente ero in calo, l’attesa della gente enorme, mi feci da parte. Ho tenuto un diario durante la mia carriera. Ogni tanto vado a rileggerlo. “La grandezza di una persona si misura dalla sua qualità umana, non dai Mondiali che ha giocato”. Non sono diventato ricco con il calcio, a quei tempi non pagavano tanto. Al León arrivavo a 20mila pesos al mese. Non mi pento di niente, mi è andata meglio come allenatore. In dieci anni sono riuscito a comprare una casa a ciascuno dei miei figli.
Ho conosciuto la mia Maria Teresa, più di 50 anni di matrimonio, a una festa del mio compagno di squadra Luna. Lei era di Acapulco. Bella come un tuono. Nei tre anni di fidanzamento non ha mai saputo che fossi un calciatore. Lo scoprì dopo 15 giorni di matrimonio, per lei semplicemente ero Toño, il ragazzo della vetreria. Le tenni nascosta la verità per capire se amava me o se amava il portiere della nazionale messicana. Poverina, lei niente sapeva di calcio, neppure che ero stato ai Mondiali in Brasile. Ci siamo sposati nella sua città e subito tornammo a casa. Due settimane dopo, venne a bussare alla porta Luna. Lei mi vide uscire con una borsa in mano e fece una faccia strana. Le dissi: ah, sì, volevo avvertirti già da un po’, guarda che hai sposato un calciatore.
Ci fu la possibilità di andare al Real Madrid. In Brasile mi voleva il Palmeiras. Ma io sono un tipo fedele, ve l’ho detto. Quando il calcio è diventato solo un ricordo, sono tornato a fare il vetraio. Aiuto i ragazzi che hanno problemi con la droga. Li accompagno dal dentista oppure a comprare biancheria pulita, qualche volta andiamo insieme al cinema. Cerco di dar loro un interesse, un motivo per cui arrivare a sera. E quando vogliono, a sera, ho sempre un tavolo di moquette su cui dormire.
(*) passaggio modificato dopo i suggerimenti dei lettori
(lLe parole liberamente attribuite ad Antonio Carbajal sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
Angelo Carotenuto