Giro d’Italia 1926. Primo, Giovanni Brunero. È in quel Giro, si dice, che nacque la maglia nera. Non legata al novantaduesimo, e ultimo (Giovanni Chiesa, a 27 ore, 26 minuti e 56 secondi dal bersagliere ciclista di San Maurizio Canavese: a una media di 25,11 all’ora, più o meno 690 chilometri di distacco), ma al corridore con il dorsale numero 152: Giuseppe Ticozzelli.
Nessuno, tranne lui, è riuscito nell’impresa di giocare nella Nazionale italiana di calcio e correre il Giro d’Italia. Era la quattordicesima edizione: da Milano a Milano lungo 3429 chilometri di strade bestiali, 12 tappe, la più lunga da Terni a Bologna 357 chilometri, il punto più a sud Foggia, il punto più a nord Udine, il punto più alto Roccaraso a 1236 metri, 253 iscritti, 205 partenti, 40 arrivati, 165 ritirati. Fra di loro, alla partenza della quarta tappa, anche lui. Ce lo racconta la penna “speciale” di Marco Pastonesi, autentico cantore del ciclismo.
“Mio padre – ha raccontato Giovanni Ticozzelli, quinto e ultimo figlio del “Tico” – era di Castelnovetto, pavese della Lomellina, un uomo grande e grosso, potente e atletico: 1,87 per 95 chili, giro-coscia 84 centimetri, difficile trovargli un paio di pantaloni adatti, faceva i 100 metri in 12 secondi. Nel 1926 aveva 32 anni: da calciatore, aveva già giocato con la Nazionale, contro la Francia, 9-4 al Sempione di Milano, e alla partita ci andò in bici, in campionato aveva giocato con Alessandria, di cui era stato anche tra i fondatori, Spal da giocatore-allenatore, e Casale. La bici gli serviva per tenersi in forma. E fu così che partecipò al Giro. Si iscrisse, allora si diceva così, da diseredato, cioè da indipendente, senza l’assistenza di una squadra”.
La prima tappa, il 15 maggio, fu la Milano-Torino, 275 chilometri perché la via diretta era considerata troppo facile, e ci si complicava la vita cercando allungatoie e salite. Primo Domenico Piemontesi, di Borgomanero, della Alcyon-Dunlop, in 10 ore, 58 minuti e 50 secondi, alla media di 25,144 chilometri orari. Novantaquattresimo Giuseppe Ticozzelli, di Casale (così era riportato sulla “Gazzetta dello Sport”), a 2 ore, 36 minuti e 50 secondi. E centoquattordicesimo, cioè penultimo, il vecchio Giovanni Gerbi, “il Diavolo Rosso”, a 3 ore, 28 minuti e 30 secondi. La selezione era stata durissima. La seconda tappa, il 17 maggio, fu la Torino-Genova di 250 chilometri e mezzo. Piemontesi concesse il bis in 10 ore, 44 minuti e 48 secondi, alla media di 23,309. “Il Tico” si piazzò sessantottesimo, a 2 ore, 8 minuti e 58 secondi. La selezione era stata ancora pesante: al traguardo arrivarono soltanto 93 concorrenti. La terza tappa, il 19 maggio, fu la Genova-Firenze di 312 chilometri. La conquistò Alfredo Binda, in 14 ore, 5 minuti e 46 secondi, alla media di 22,134. “Il trombettiere di Cittiglio” lasciò il tenace Ticozzelli, sessantesimo (su 67 sopravvissuti), a 2 ore e 56 minuti.
“Quella terza tappa – ha sottolineato Giovanni Ticozzelli – fu fatale. Mio padre andò in fuga, da solo, addirittura con un’ora di vantaggio sui migliori. Sul Bracco rimase senza rifornimenti e allora si fermò in una trattoria, sistemò il tavolo sul bordo della strada per non perdere di vista gli inseguitori e mangiò finché non sopraggiunse il gruppo. Soltanto allora salutò tutti, si rimise in sella e ripartì. E questa impresa era stata raccontata anche da alcuni camalli in tv”. Ma il Giro d’Italia del “Tico” si concluse a Firenze. “Secondo la cronaca della ‘Gazzetta dello Sport’, era rimasto coinvolto in una caduta vicino all’arrivo, ‘provocata da un motociclista’. Giunse al traguardo, ma poi fu costretto ad abbandonare la corsa per le ferite”. A quel punto “il Tico” era sessantaquattresimo in classifica generale, a 7 ore, 29 minuti e 18 secondi da Piemontesi, però cinquantesimo nella speciale classifica riservata ai “diseredati”, a 6 ore, 47 minuti e 44 secondi da Giuseppe Enrici, che due anni prima aveva vinto quel Giro d’Italia cui aveva partecipato – unica volta nella storia della Corsa Rosa – una donna, Alfonsina Strada.
E la maglia nera? “Mio padre – ha spiegato Giovanni Ticozzelli – correva con la maglia da calcio del Casale, nera con una stella bianca sul cuore. Ma il nero era un colore politico. E da quello che mi disse lui, era stato investito volontariamente. L’attribuzione della maglia nera come omaggio al ‘Tico’ è soltanto fantasia, anche perché lui, ultimo, non lo è mai stato”. Semmai primo. “Il primo e unico a giocare nella Nazionale italiana di calcio – e l’unico, quel giorno, a indossare i pantaloncini neri invece che bianchi perché bianchi, della sua misura, non ce n’erano – e a correre il Giro d’Italia”. In più: “Tre croci al valore e una medaglia di bronzo, in due guerre, la Grande Guerra e quella di Etiopia. Lui sosteneva che due potevano bastare, tanto che mi fece studiare da ragioniere perché i ragionieri – ne era certo – non vanno in guerra”.
Grande “Tico”. Ma anche povero “Tico”. “Fu durante la guerra in Etiopia che cominciò a perdere la vista – ricordava Giovanni Ticozzelli -. Ma non si rassegnò né si lamentò mai. Non era nel suo carattere, non era nella sua indole. Così per il calcio, andava allo stadio e si faceva raccontare la partita in diretta. E per il ciclismo, aveva comperato un tandem, uno dei figli davanti e lui dietro. E si volava”. Foto di lui in bici? “Una sola. Il resto si è perduto nei traslochi”.