Essere profeti in patria non è mai facile e le storie di calcio sono lì a raccontarlo: le tante pressioni di un ruolo così importante ti possono schiacciare, come allo stesso tempo esaltarti. Prendiamo Giuseppe Giannini per la Roma o Paolo Maldini per il Milan: uomini che hanno fatto la storia di questi club, entrambi nati nelle città di appartenenza e divenuti bandiere che nessun tempo potrà mai ammainare. La stessa cosa si può dire di Roberto Amodio, difensore stabiese – nato nel 1961 – che a 32 anni corona il suo sogno: indossare la casacca della squadra della sua città, la Juve Stabia. Ci arriva ad un’età in cui si è forgiato grazie ai campionati di serie A disputati con la maglia dell’Avellino e quindi con una tempra utile a fargli vivere il ruolo di “profeta in patria” con quello spirito che serve per sopportarne anche il peso. Sei stagioni – dal 1992 al 1999 – dove diventa il leader e il capitano delle Vespe, divenendo il calciatore con più presenze nella storia della Juve Stabia.
Con la sua esperienza non si perde d’animo e dimostra che la serie C (la Lega Pro ancora doveva nascere) non gli pesa, se vissuta con i colori della sua Juve Stabia. Amodio era un difensore roccioso, che nella sua carriera ha affrontato giocatori del calibro di Gullit, Maradona, Rummenigge, Platini, ma ha preso “una bambola da Walter Sabatini. Giocavo nel Messina e a Siracusa in una partita di Coppa Italia mi fece vedere quello che non ho mai rivissuto in tanti anni di campi di calcio”. Interessante l’intervista rilasciata a Daniele Mosconi su “Tuttomercatoweb”.
Uno stabiese che riesce a conquistare il cuore dei tifosi. C’è un segreto?
“Non credo esistano ricette: Castellammare è una città difficile con una tifoseria che ti fa sentire la pressione e bisogna anche dire che qui il calcio è vissuto quasi come una religione. Allo stesso tempo la tifoseria se ti prende a cuore ti fa diventare uomo pronto per spiccare il volo nel mondo del calcio. Al tifoso stabiese non interessa se sai giocare o meno a calcio: interessa che tu ci metta impegno e cuore in campo. Qui a Castellammare si respira calcio tutto il giorno e se non sei forte caratterialmente puoi soccombere. Ho avuto la fortuna di arrivare a indossare questa maglia ad un’età (32 anni) in cui ormai avevo un’esperienza tale che potevo accettare il ruolo che poi mi è stato ritagliato addosso: l’ho fatto con piacere, con orgoglio e sono il calciatore con più presenze nella storia della Juve Stabia (168)”.
Da stabiese, giocare con la maglia della squadra della tua città era più un incentivo o una difficoltà?
“Sicuramente un incentivo: come ti dicevo poc’anzi, in questa città la pressione è tanta, ma il fatto di aver giocato in piazze altrettanto calde (Avellino, Napoli, Lecce, Taranto tra le altre) era una corazza per sopportare quello che immaginavo. Ci sono nato a Castellammare, quindi so come vive la tifoseria la sua squadra del cuore”.
Parlando della tua carriera, ad Avellino (dal 1984 al 1990) hai disputato le tue stagioni più importanti affrontando gli avversari più forti di allora: Falçao, Platini, Maradona, Zico, Careca, Van Basten, Gullit. Quale ricordo hai di quegli anni, definiti da tanti i migliori per la qualità dei giocatori, del nostro calcio?
“Un ricordo bellissimo sicuramente. Quando ho debuttato in A (con il Napoli nel 1979-‘80, NdR) c’era un solo straniero e chi veniva in Italia faceva la differenza. Non solo: c’era il culto di prendere gli attaccanti e si andava alla ricerca dei migliori al mondo. Però c’erano anche tanti difensori bravi”.
Quelli che mancano attualmente al nostro calcio.
“Adesso i tempi sono cambiati: si cura maggiormente l’aspetto tecnico, dimenticando le basi per la fase difensiva. Prima si è difensori, poi si diventa bravi a impostare. Noto che molti sono innamorati della palla e spesso questo non consente loro di lavorare in maniera pulita sotto l’aspetto della marcatura dell’avversario di turno”.
Secondo te la carenza di difensori di un certo spessore, da dove deriva?
“Intanto oggi i ragazzi vogliono tutto e subito. Non hanno la pazienza di aspettare e imparare. Soprattutto imparare. Chi si avvicina al calcio ha sempre con sé il procuratore che, invece di aiutarlo a crescere, lo asseconda, quindi senti discorsi del tipo che se non stai giocando qui, tra qualche settimana ti sposto in un’altra squadra e fai minutaggio. In questo modo non solo non cresce il ragazzo, ma gli impedisci di conquistarsi il posto. Non voglio fare il falso modesto, ma ai miei tempi non c’erano i procuratori e dovevi sorbirti tanti colpi duri e se volevi giocare dovevi sputare sangue. Oggi bastano due panchine e subito mollano, coccolati come sono dai rispettivi procuratori che già sono pronti a spostarli da qualche altra parte. In questo caso viene a mancare l’appartenenza”.
L’appartenenza ad una maglia o lo spirito di sacrificio per conquistarsi il posto ormai non esistono più.
“Le voci sono tante, i giornali e internet amplificano tutto e questo sotto un certo aspetto danneggia i ragazzi. Molti giornalisti sono amici di procuratori e quindi questo crea un meccanismo perverso, tale da creare dei presunti campioni soltanto sui giornali. Alla prova del campo questi non sono ancora maturi per certi palcoscenici, non reggono e alla fine si perdono. Basta anche guardare cosa avviene con tanti di questi ragazzi che arrivano al proscenio europeo e non hanno i mezzi per starci”.
Le regole sui giovani non hanno portato chissà quali vantaggi.
“Partiamo dalla base: quando un club di A ad inizio stagione deve mandare i suoi ragazzi a farsi le ossa, inizia dalla B dove manda quelli che hanno una possibilità in più, in Lega Pro ne manda altri, sicuramente meno pronti, in D arrivano quelli con meno speranze. Allora cosa avviene: restando in Lega Pro, dei due, tre pronti su cui puoi puntare, devi averne almeno altrettanti per non restare scoperto. Questi a fine stagione ti portano quei trencento, quattrocentomila euro che servono non solo per il futuro del club, ma a pagare in parte quei quattro che non erano pronti”.
Non credi che gli ex difensori potrebbero dare il loro contributo di esperienza per far crescere i difensori di oggi?
“Sono d’accordo con te. Sarebbero molto utili. L’esperienza di un allenatore spesso gli fa perdere alcune conoscenze ed ecco che il contributo di noi ex difensori in alcuni frangenti può tornare utile per eliminare degli errori che spesso sono causati da scarsa attenzione. Purtroppo oggi i difensori riescono a salvarsi con qualche gol, facendo dimenticare i loro errori precedenti”.
Ai tuoi tempi non era così: il difensore doveva stare fisso in difesa e il gol era una chimera.
“Non solo questo: quando affrontavi avversari come Rummenigge o Pruzzo, dovevi mettere in conto che almeno un paio di volte – se ti andava bene – ti potevano scappare. E in una di quelle due occasioni ti facevano secco. Tu a fine partita non gli avevi fatto toccare palla, ma i tifosi e i media in generale ti facevano passare per coglione. Fa parte del gioco delle parti e anche le società stesse non possono attendere: quindi c’è bisogno del ragazzo pronto che a fine stagione potrebbe portarti il denaro per l’anno successivo”.
Spesso i ragazzi non vogliono ascoltare.
“Non la metterei su questo piano: è vero che bisogna stare attenti a come si parla con loro, perché tu società hai bisogno di lui. Però è anche vero che la stessa imponenza e tracotanza che hanno fuori dal campo, quando si tratta di allenarsi o di giocare, non la mettono. Tutti bravi a parlare di soldi, contratti, però alla fine non danno quello che possono. Anche per giocare in determinate piazze bisogna avere gli attributi. Mi è capitato di ragazzi che si sono abbattuti per dei fischi e subito si sono rivolti al loro procuratore che subito è stato pronto a cercargli la soluzione, non vedendo che in quel modo lo stesso giocatore veniva danneggiato. Così alle volte è capitato che qualche procuratore al primo fischio veniva da me a lamentarsi e prospettandomi un allontanamento del suo assistito in una piazza più tranquilla. Io dicevo loro che se vogliono fare i calciatori e giocare in stadi da settantamila spettatori, se si intimoriscono di qualche fischio davanti a tremila spettatori, non andranno molto lontano”.
I tuoi primi tempi nello spogliatoio del Napoli come li hai vissuti?
“Dormivo in camera con Bruscolotti e avevo soggezione anche ad accendere la luce in camera. Questo per dirti il rispetto che si portava per i vecchi dello spogliatoio. Erano sempre persone, ma avevano un carisma particolare. So benissimo che i tempi sono cambiati, però ribadisco: la mancanza di valori ha complicato le cose. Il mercoledì, sapendo che il giorno dopo avrei giocato l’amichevole contro la prima squadra e avrei dovuto marcare Savoldi, non prendevo sonno. C’era quel sapore della conquista che ti faceva capire che il sacrificio portava ad un risultato”.
Chi è stato l’avversario più ostico che hai affrontato nella tua carriera?
“Ho preso una bambola colossale con Walter Sabatini. Ricordo che giocavo con il Messina e in una partita di Coppa Italia contro il Siracusa, questi mi fece impazzire. Non ricordo nessun’altro che mi fece come Sabatini quella sera, altrimenti l’avrei tranciato. Anche allora era magro, con i capelli lunghi. Pensa che quando abbiamo fatto il corso per Direttori sportivi a Coverciano io lo guardavo, perché devi sapere che io questo giocatore che quella sera mi fece ammattire, lo cercavo e non lo trovavo. Quando l’ho riconosciuto ha ammesso che sono stato sfortunato: era sempre infortunato e giocava una, due partite l’anno. Eppure di giocatori forti ne ho affrontati, ma come Sabatini quella sera, mai”.
Mentre l’allenatore che ti ha insegnato di più?
“Ho avuto tantissimi allenatori: da Ivic ad Angelillo, ma l’allenatore che mi ha colpito tanto era Giuseppe Caramanno. Sarà che avevo una certa età ma con lui si era creato un rapporto schietto, franco. Ed inoltre era un vero maestro di tattica, con degli esempi molto semplici. Un altro che poi si è perduto ma che mi fece un’ottima impressione fu Zibì Boniek. Lo trovai a Lecce e appena arrivato mi disse: ‘senti, io qui non ti volevo. Ora ti hanno preso, quindi cammina come devi camminare perché come sbagli, prendo e ti caccio via’. E questo fu detto davanti a trenta persone. Dopo tre mesi sempre davanti ai miei compagni si è ricreduto. Sono discorsi tra uomini veri. Detto ad un ragazzo di oggi immagino che conseguenze possa avere, ma dette da un uomo ad un altro uomo, ho preso quelle parole come uno stimolo a fare bene. Oggi si fa fatica a parlare in faccia: si parla solo sui giornali”.
La tua stagione migliore da calciatore dove l’hai vissuta?
“Ho fatto un anno ad Avellino con Vinicio: facemmo una stagione eccezionale: per un punto non arrivammo in Coppa Uefa. Non eravamo costruiti per arrivare in Europa. Ricordo che all’ultima giornata battemmo la Roma in casa. Vincemmo 6-2 a Udine contro l’Udinese di Collovati, Sclosa. Vinicio aveva il dente avvelenato perché l’anno prima era stato esonerato e sul 4-0 per poco sveniva. Il giorno successivo ci portò a mangiare per la felicità e per premiarci per la prestazione offerta in campo”.