Massimo Bonini, da gregario, sempre di corsa a simbolo di un calcio diverso, più romantico. L’ex centrocampista giocò da titolare due finali di Coppa dei Campioni, oggi lo puoi incontrare nel suo ufficio a Serravalle, castello di San Marino, dove fa l’imprenditore edile e ha una serie di foto d’epoca appese alle pareti e anche qualche targa sulla scrivania. È stato l’erede di Beppe Furino, furia, furin, furetto, com’era chiamato il capitano bianconero degli anni ’70 da Vladimiro Caminiti, grande penna di Tuttosport. Anche Bonini era un maratoneta della fascia destra, contrasto, recupero palla e ripartenza, con quella zazzera bionda: era cresciuto nel settore giovanile della Juvenes, nella repubblica di San Marino, quasi un presagio della sua carriera. Interessante per conoscere il personaggio e il calcio di quell’epoca, l’intervista a Bonini di Vanni Zagnoli su “Assocalciatori”.
Massimo, il suo primo presidente fu un sacerdote, don Peppino.
“Gestiva tutto lui. Ero tifoso bianconero e andare a finire nella Juve per me è stato proprio il massimo. Addirittura un anno volevo smettere per diventare maestro di tennis, per fortuna ho continuato con il pallone…”.
A 18 anni si trasferì nella Serie D italiana, nel 1977-‘78 al Bellaria, con Arrigo Sacchi allenatore.
“Gli bastarono due allenamenti per capire le mie qualità, mi impiegò sempre da titolare, permettendomi di brillare. Quando invece arrivò al Milan, mi chiamò, io ero in scadenza di contratto con la Juve, mi fecero un triennale e allora restai a Torino”.
Già allora era un maestro della fase offensiva?
“Sì, perché in genere quando si perdeva palla si arretrava, con lui invece attaccavi. Era il suo primo anno da professionista, poi è cresciuto e cambiato ma la professionalità era già molto evidente, con grandi numeri”.
Nel 1979 passò al Cesena, con Osvaldo Bagnoli in panchina. In squadra c’erano Daniele Arrigoni, poi allenatore bianconero, lo scomparso Corrado Benedetti e Giancarlo Oddi, già campione d’Italia con la Lazio…
“Ero in un centrocampo di giovanissimi, con Adriano Piraccini e Fabrizio Lucchi. Alla seconda stagione ottenemmo la promozione in Serie A, nonostante squadroni come Milan e Lazio. Fin da piccolo andavo a vedere il Cesena, seguivo molto questa società che per noi in Romagna è un punto di riferimento”.
Fu Pierluigi Cera, vicecampione del mondo nel ’70, a consigliarlo a Giampiero Boniperti e alla Juve arrivò per 700 milioni più Vinicio Verza e la comproprietà di Massimo Storgato.
“Fece tutto Boniperti, stabilì il mio contratto e l’indennizzo per il Cesena, tanto più che lo scomparso presidente Lugaresi non sapeva quanto chiedergli. Me lo raccontava sempre, ero stato la sua prima grande cessione”.
Aveva il procuratore?
“No, facevo da solo. Ma come si sa alla Juve decideva davvero tutto il presidente. Si vinceva tanto, la società per i premi elevati, non per gli ingaggi di base, e con i trofei arrivarono anche molti quattrini”.
E poi l’esordio in Serie A, con Trapattoni in panchina, proprio contro i romagnoli, il 13 settembre 1981.
“Mi diede la soddisfazione di entrare, vincemmo 6-0”.
E tre giorni dopo il debutto in coppa dei Campioni, a Glasgow contro il Celtic.
“Lì ero titolare, non riuscivo a capire dove fossi poiché non ero abituato a questo tifo. In Scozia vinsero loro 1-0 ma passammo noi al ritorno, 2-0, al Comunale”.
E ben presto nacque il suo piccolo mito, di giocatore di minore classe fra tanti campioni.
“Trapattoni mi dava il compito di coprire i molti calciatori offensivi che avevamo. Cabrini avanzava a sinistra, Gentile faceva anche l’ala destra, Scirea il centrocampista, dunque ero quello che tamponava o cercava di rallentare la giocata quando si perdeva palla”.
Anche per questo ha sempre segnato poco, 5 reti in 192 gare di campionato. Qual è stata la più bella?
“Contro l’Inter, di sinistro, Marco Tardelli ancora ride. Non era il mio piede preferito, segnai un gran gol e ai nerazzurri fra l’altro ne realizzai anche un altro”.
Eppure quasi non poteva superare la metà campo…
“Già, il Trap ogni volta che avanzavo iniziava a fischiare e mi mostrava il pugno”.
Com’era il rapporto con la famiglia Agnelli?
“Prima della partita ci recavamo spesso a Villar Perosa, alla villa arrivava sempre l’avvocato, con l’elicottero. Parlavamo e c’era Michel Platini che fumava, l’avvocato lo pregava di smettere, perché un calciatore non dovrebbe e il francese replicò: ‘L’importante è che non fumi Bonini…’”.
Battuta passata agli annali.
“Io correvo molto, non è vero che lo facessi anche per lui, non si risparmiava”.
Eravate amici?
“Michel ci invitava spesso a casa sua, soprattutto chi non era sposato, quando la moglie andava in Francia”.
All’epoca erano concessi molti più falli, prima di arrivare all’ammonizione e all’espulsione.
“Da mediano, ero sempre al centro del gioco, dovevo essere duro ma sono stato espulso una sola volta, nel derby con il Torino. L’arbitro Casarin mi ammonì per un fallo che in realtà aveva fatto Dossena, battei le mani e allora mi buttò fuori”.
Nell’82-’83 si aggiudicò il trofeo Bravo del Guerin Sportivo, destinato ai migliori under 24 d’Europa.
“C’erano grandi giocatori, come Maradona. Fu un premio per la squadra, ero l’unico giovane, fra campioni arrivati alla finale di Coppa dei Campioni”.
Ad Atene eravate favoritissimi. Perché vinse l’Amburgo?
“Il campionato era finito troppo presto, un mese prima della gara più importante. Arrivammo una settimana prima e per ogni allenamento sembrava passasse il giro d’Italia, fra tante bandiere bianconere. E anche allo stadio c’erano soltanto 5mila tedeschi. La qualificazione fu incredibile, vincemmo ogni gara. Arrivammo talmente carichi che neanche ci eravamo resi conto di avere perso, con quel sinistro da fuori di Magath”.
Lo marcava lei?
“Sì, segnò peraltro da fuori area, pescando il jolly. Diedero la colpa a Dino Zoff ma il portiere non c’entrava: Bettega lo andò a pressare, saltò, io ero dietro e il trequartista la mise nel sette”.
Che ricordo ha di Stefano Pioli?
“Bellissimo. Noi ci allenavamo sempre il mercoledì mattina, rientravo la domenica, in Romagna. Lui era giovane, io mi alzavo alle 5 e passavo a prenderlo al casello autostradale di Parma, invece di tenermi compagnia si addormentava. E allora gli facevo scherzi: arrivavo davanti alla sbarra e frenavo di scatto. Sono felice per la carriera che ha avuto da allenatore, compreso questa occasione al Milan”.
Come andò quella tragica serata dell’Heysel?
“Non avevamo mai vinto la Coppa dei Campioni, la società voleva alzarla. Accadde quello che non deve mai succedere, non si può morire per andare a vedere una partita di calcio. Già la mattina erano successi un po’ di tafferugli, in centro, giocammo in uno stadio inadeguato a una finale”.
Davvero non vi rendeste conto di quanto fosse accaduto?
“Veramente. Durante il riscaldamento negli spogliatoi arrivava di tutto, gente che aveva perso le scarpe, non si capiva bene cosa fosse accaduto. Qualcuno parlava di un morto, altri addirittura di cento”.
Con il metro arbitrale moderno e soprattutto con il Var, c’era un rigore per il Liverpool?
“Poteva starci perché Whelan si allungò la palla e io entrai in scivolata, il campo era bagnato. Non toccai il pallone, presi la gamba”.
E il rigore lucrato da Boniek?
“Recuperammo palla e ci fu il contropiede, Platini lanciò subito il polacco. Dal campo sembrava rigore nettissimo, guardandolo in tv si vede che era fuori”.
E a dicembre dell’85 arrivò la Coppa Intercontinentale, a Tokyo.
“Il trofeo più bello che abbia sollevato, ero davvero campione del mondo, come club. Eravamo sempre sotto e recuperammo, con l’Argentinos Juniors. L’arbitro annullò un gol incredibile di Platini, con il sombrero: l’aveva messa nel sette. In base all’andamento, fu la partita che mi emozionò di più”.
Perché passò al Bologna, a neanche 29 anni?
“Il mio amico Ivano Bonetti ci era appena andato, fu lui a convincermi. Una settimana dopo andai a parlare in sede, volevo andare via, c’era la Lazio interessata ma ho preferito restare vicino a casa”.
Era il Bologna di Gigi Maifredi, neopromosso in Serie A.
“Giocava un calcio molto propositivo, alla Sacchi e davvero offrivamo spettacolo. Era proprio un modo diverso di intendere lo sport, tutta la settimana a ridere e a scherzare. E poi c’era anche Eraldo Pecci, una bella caricatura”.
La morte di Gaetano Scirea.
“Ancora non posso credere che non ci sia più (Bonini si commuove ndr), dentro di me è ancora vivo. Mi ha dato tanto, era un leader onesto, neanche sembrava un giocatore. Era il mio punto di riferimento, alla Juve mi mise subito a mio agio”.
Lei smise a 34 anni, tra i professionisti, e poi?
“Iniziai subito a fare l’allenatore. Della Nazionale di San Marino, la qualificazione ai Mondiali del ’98. Poi Totò De Falco mi volle al settore giovanile del Cesena: lanciai Biondini, Pulzetti, Bernacci, finito in Serie D nonostante un grandissimo talento”.
Giocò nell’Under 21 azzurra, non in Nazionale.
“Perché non avevo il passaporto italiano, così giocai sempre nella Nazionale del Titano”.
Ha sempre vissuto di calcio?
“Non solo. Ho studiato per due anni da geometra, mi piace proprio dividere gli appartamenti, scegliere le mattonelle, ricercare i materiali e scegliere i colori”.
Fra l’altro aveva aperto una scuola calcio negli Stati Uniti.
“Con Ciccio Graziani, che la fece per conto della Roma, a New York, a Long Island”.
Come vive lontano dal grande calcio?
“La sensazione è stranissima, nei casi in cui entro in uno stadio che mi ha visto protagonista. Tornano alla memoria le partite, vivo gli attimi, non amo vivere di ricordi”.
Da due anni è direttore tecnico di tutte le Nazionali di San Marino.
“Sono stato io a scegliere Franco Varrella come ct”.
Qualche altro dettaglio lo riprendiamo da Il Giornale, che aveva richiamato in prima pagina il racconto di Franco Ordine.
“Sono più impegnato adesso di quando andavo in giro per il mondo con la Juve” – spiega Bonini – Avevo chiuso con la carriera di allenatore nel 2002, a Cesena, perché mi pesava mettermi in macchina per andare da San Marino a guidare i ragazzini”. Ha portato avanti l’azienda edile di papà Alfredo detto Coppi (per la passione sfrenata verso le imprese del campionissimo) con la sorella Nadia. Doveva accudire mamma Mariola, che aveva la trattoria di famiglia. “Adesso, stanco di correre per tutti, mi son dato al golf così posso passeggiare. Quando capita dalle mie parti, invito Platini a partecipare a qualche torneo. Siamo stati alcuni mesi fa a Cattolica”. Otto anni di Juve, 3 scudetti vinti, una Coppa Italia, e il ciclo completo di coppe europee e mondiali. “Giocavamo su campi improbabili, pieni di fango e quando pioveva c’era la segatura. Oggi i prati sono perfetti, sembra di vedere la playstation. Persino il gioco è cambiato. Ci menavamo di santa ragione, nessuno protestava e l’arbitro non s’accorgeva di nulla. Una volta, a Firenze, un difensore svedese, Glenn Hysen, mi rifilò un cazzotto in bocca. Mi svegliai nello spogliatoio con il medico che mostrava le dita della mano e mi chiedeva di contarle, per capire se ero lucido. Oggi le tv controllano persino la spintarella o il fuorigioco di centimetri, figurarsi un gesto violento”.
Chi sono stati i più grandi?
“Il più forte fu Maradona: ti puntava e ti saltava, tornava indietro e ti saltava ancora. Ma il più difficile da marcare è stato Falcão, si muoveva senza palla e a un certo punto lo perdevi di vista, non lo trovavi più”. Bonini, invece, è sempre per i castelli di San Marino, a trattare appartamenti e terreni e a seguire gli allenamenti. Naturalmente, è stato il più grande giocatore nella storia del Titano, davanti al talentuoso Marco Macina, che si è perso presto, e al gigante Roberto Cevoli, da tempo allenatore, in Serie C.