«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa. Quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar…», cantava un nostalgico Adriano Celentano in un pomeriggio troppo azzurro e lungo, senza neppure un prete a cui confidare i suoi piccoli dolori giovanili, ma soprattutto senza un amico con il quale tirare quattro calci ad un pallone, lì nel campetto polveroso dell’oratorio dei ragazzi della via Gluck. Ma, in coro, da allora – come ha raccontato Massimiliano Castellani nel 2011 su “Avvenire” – gli sono andati dietro intere generazioni che, pallone ai piedi, nel campetto parrocchiale hanno trascorso i pomeriggi meravigliosamente più lunghi dell’adolescenza. È storicamente provato che il calcio italiano è figlio della tradizione oratoriale. Non c’è oratorio d’Italia (attualmente sono circa seimila, la metà in Lombardia) in cui, almeno fino agli anni ’90, non abbia mosso i primi passi un campione.
Poi un decennio di buco, specie negli oratori di città, svuotati dalla grande corsa ai campi organizzati e dal dazio delle rette mensili da versare alle illusorie scuole-calcio. Ma la resistenza di curati e del grande esercito del volontariato, in provincia come nella metropoli, ha fatto in modo che anche nei momenti più bui il campo dell’oratorio non diventasse un deserto accanto alla cattedrale. Così, ieri come oggi, lì c’è sempre un campionato in corso, non ostaggio dei milioni di euro che rimbalzano oltraggiosi e prepotenti sulle zolle sintetiche del professionismo, ma che è frutto della voglia di crescere insieme, giocando. Tornei in parrocchie di periferia, in cui il pallone non sciopera mai, vengono tenuti in piedi dall’eterna passione dei ragazzi, ma prima di tutto da qualche tonaca illuminata da “Eupalla” che ha messo in campo l’insegnamento del santo moderno dello sport, don Giovanni Bosco che ammoniva: «Amate ciò che i giovani amano». A Ferrara lo sapeva bene don Pastorino, il catechista del seminario di via Coperta, quando nel 1907 ampliò la filodrammatica – costituita da operai – Ars et labor, ideata da don Acerbis, nella Società polisportiva. Da quella fusione originò la Spal, la poetica squadra ferrarese amata da Giorgio Bassani che scende in campo con le maglie biancoazzurre, in omaggio ai colori dei salesiani. Con quelle divise la Spal arrivò fino alla serie A, mettendosi in mostra negli anni ’60.
Il decennio in cui esplose la stella di Gianni Rivera. Il “Golden boy”, l’“Abatino” di Gianni Brera, per via di quelle origini oratoriali. «Ho cominciato a giocare all’oratorio salesiano di Alessandria. Prima di Nereo Rocco ho avuto tre padri calcistici, don Piero, don Filippini e don Cerchia», racconta l’ex Pallone d’oro (1969), che ha anche presieduto la Federcalcio-Settore giovanile e scolastico.
Tre parroci attenti a far crescere il giovane Rivera e i suoi compagni, in un ambiente «sano e protetto». Lo stesso habitat in cui, a Mantova, è maturato il suo compagno di nazionale, Roberto Boninsegna detto “Bonimba”. «I miei primi derby non li ho mica giocati a Milano o a Torino, ma sul campo dell’Anconetta, in riva al Lago di Sotto. Erano le sfide tra il mio Sant’Egidio e gli Aquilotti».
Dal Sant’Egidio Boninsegna arrivò all’Inter, mentre la maggior parte dei suoi compagni finirono direttamente nel Mantova, che con Edmondo Fabbri dalla quarta serie approdò alla serie A, diventando il “piccolo Brasile”. Piccoli miracoli del calcio d’oratorio che a volte conducono persino alla conquista di un Mondiale.
Quello di Spagna ’82. Trionfo azzurro eternato nell’urlo post-munchiano di Marco Tardelli dopo il gol in finale alla Germania. «Ho cominciato da bambino, a Pisa, con le partitelle a sette, al campetto di santa Caterina e san Francesco. Mi chiamavano “fil di ferro” per quanto ero magro. Il momento più bello in quegli anni fu quando all’oratorio Lanteri costruimmo il campo di calcio insieme al parroco, padre Bianchi. Stavamo lì dalla mattina alla sera e quando andavi a casa erano sberle, perché invece di studiare eri stato tutto il giorno a giocare a pallone. Adesso invece i genitori ti prendono a sberle se non giochi e diventi un campione ricco e affermato…».
Segno dei tempi. Ma tra le pagine scure dell’invasato calcio-business, ancora qualcosa di buono rimane. «Ai ragazzi dico sempre di prendere il calcio e lo sport come un gioco, senza pensare al guadagno, al successo a tutti i costi e tanto meno a diventare un personaggio famoso», dice l’ex portierone Francesco Toldo, partito attaccante “alla Gigi Riva” con l’Unione sportiva Maria Ausiliatrice, l’oratorio di Caselle di Verrazzano (Padova) e finito a difendere i pali della nazionale. Toldo, l’eroe degli Europei del 2000 che aveva come compagno di squadra Demetrio Albertini, ennesimo esempio di campione nato e cresciuto in oratorio.
Sul campetto di Villa Raverio, hinterland milanese, il geometrico Albertini ha “debuttato” insieme al fratello Alessio, sotto la guida di papà Cesare. Poi a dieci anni Demetrio passa al Seregno, mentre Alessio a quattordici entra in seminario, ma non rinuncerà mai a convocare il fratello per sfide memorabili in quel rettangolo di gioco a due passi dalla chiesa. Lo stesso in cui si muovono centinaia di squadre ogni giorno, sotto l’occhio attento di un allenatore ideale che spesso è anche un “don”, come Andrea Bonsignori. Da anni il suo oratorio accoglie i ragazzi del gran bazar torinese di Porta Palazzo e nella GiuCo 97, la squadra della scuola del Cottolengo che don Andrea dirige, giocano proprio tutti.
«Forse siamo una delle poche formazioni in Italia composta da ragazzi disabili e normodotati. E questa è una delle tante possibilità che offre ancora il calcio oratoriale», dice orgoglioso don Andrea. Solo il calcio d’oratorio riesce ad abbattere ogni tipo di barriera e ad essere la massima espressione democratica. La conferma viene da un’altra formazione speciale, quella del Duomo Chieri del “mister” Dario Biasiolo. Nel club dell’oratorio torinese del Centro sportivo italiano, Biasiolo ha eliminato la figura discriminante del “panchinaro”: nell’arco della partita, tutti i suoi ragazzi giocano lo stesso minutaggio. «Così facendo, in soli due anni i nostri tesserati sono passati da venti a centosessanta. E i genitori ci dicono entusiasti che i loro figli sono cambiati e che con questo metodo hanno acquisito una maggiore sicurezza che ha dei riflessi positivi anche sul rendimento scolastico».
Il calcio come scuola di vita? Possibile, specie al Sud, dove le strutture oratoriali da sempre sono più carenti, mentre cresce incessante il disagio giovanile. Ma il vento della rinascita spira forte perfino nel Messico napoletano di San Giovanni a Teduccio. Nel campo della parrocchia di Maria Immacolata Assunta in Cielo, la giovane laica consacrata Carmela Manco è riuscita a strappare via dalla strada gli scugnizzi, figli di appartenenti a bande camorristiche in lotta tra di loro, e a far nascere la squadra della Mangrovia.
«Ciro e Peppe – dice commossa Carmela – ora giocano insieme e sono inseparabili, nonostante uno sia il figlio del boss che ha ucciso il papà dell’altro…». Ennesimo piccolo miracolo del calcio povero, di strada, che nell’oratorio trova ancora la sua casa. Del resto Borges ce l’aveva detto: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio».