Il “Guerin Sportivo” ha immaginato di incontrare l’allenatore artefice degli storici successi del Nottingham Forest in Coppa dei Campioni. In questa ipotetica intervista emergono i tratti salienti di un personaggio leggendario.
Brian Clough è stato l’allenatore del Nottingham Forest campione d’Europa sia nel 1979 che nel 1980, una squadra che, dopo aver sconvolto le gerarchie del campionato inglese, sovvertì anche quelle del calcio europeo con quella duplice vittoria che lo fece diventare un caso di studio visto che, appena due anni prima, giocava in seconda divisione. Clough, che da calciatore era stato un ottimo attaccante, si era già messo in luce quando aveva portato per la prima volta il Derby County a vincere il campionato nel 1972, anche in quell’occasione essendo partito dalla seconda divisione qualche anno prima. Imprese apparentemente impossibili che il tecnico di Middlesbrough inseguiva con l’ostinazione di un carattere insostenibile: quasi sempre scostante, il più delle volte prepotente, Clough trovava nella sua vis polemica la forza per superare gli avversari e costruire quei successi che sono rimasti nella storia del calcio inglese ed europeo.
Dopo la fallimentare esperienza col Leeds United del 1974, durata appena 44 giorni, ricostruì a Nottingham il suo ambiente ideale, guidando la squadra fino al 1993. In questa ipotetica intervista emergono i tratti salienti di un personaggio che non ha avuto uguali.
Mister Clough, come le è stato possibile portare squadre che militavano in seconda divisione a vincere il titolo nazionale in pochi mesi?
“Credo che il segreto stesse nel fatto che per la mie squadre io non mi accontentavo del secondo posto: non sopportavo perdere. Io volevo primeggiare in ogni cosa che facevo e quindi volevo vincere ogni singola partita che si andava a giocare. Credo che sia questa la molla che mi ha sempre spinto a dare il massimo e a raggiungere i risultati che ho ottenuto. So che si dice che Roma non fu costruita in un giorno ma non era quello il mio modo di ragionare. Prima dei match ai miei giocatori ho sempre detto: ‘Sparerei a mia nonna in questo momento per avere i tre punti’. Forse per questo mia nonna ha vissuto a lungo!”
La parentesi dei 44 giorni col Leeds è un buco nero nella sua lunga e brillante carriera: cosa non funzionò con i Peacocks?
“Fondamentalmente credo che ci siano state delle incomprensioni e l’incapacità di voltare pagina, lasciarsi alle spalle l’esperienza vissuta con Don Revie. Lui aveva portato il Leeds alla vittoria e i giocatori avevano identificato i suoi modi come gli unici da seguire per arrivare ad essa. Io volevo far capire che il Leeds poteva essere vincente indossando meglio l’abito del re. Poteva essere una squadra più amata e una compagine alla quale guardare con più simpatia. Non lo capirono, soprattutto Billy Bremner, il capitano: mi fece sentire un imbucato alla festa di Capodanno. Fu una cosa che mi fece molto male”.
Lei in Inghilterra portò un’idea di calcio che, in un mondo tradizionale come quello britannico, faceva fatica ad affermarsi: meno cross e palle lunghe, più gioco palla a terra. Cosa la convinse a imporre questi concetti?
“Non fu così difficile: mi bastò accorgermi che se Dio avesse voluto farci giocare a calcio in cielo, avrebbe messo l’erba lassù. Del resto solo un cretino potrebbe non rendersi conto del fatto che finchè la squadra è in possesso del pallone gli avversari non possono segnare. O no?”
Se ne accorse il Malmoe in quella prima finale di Coppa dei Campioni che il Nottingham Forest giocò nel 1979 a Monaco di Baviera.
“Non fecero un tiro in porta. Ma dopo aver eliminato il Liverpool e il Colonia non ci potevano certo intimorire quegli svedesi”.
L’anno dopo, però, l’Amburgo dominò la vostra seconda finale di Coppa dei Campioni: se il Forest vinse fu soprattutto per merito delle parate di un fenomenale Shilton e della fortuna.
“Arrivammo a quella partita stanchi e dopo un campionato dove non eravamo riusciti a replicare i risultati dell’anno precedente. Inoltre sapevamo che i tedeschi erano davvero in forma e avevano Keegan in stato di grazia: dovevo trovare un modo per arginarli e ottimizzare le nostre risorse. Cambiare strategia, ovvero lasciare a loro l’iniziativa del gioco, fu un rischio che dovemmo correre”.
Con la Coppa dei Campioni lei aveva avuto già un incontro ravvicinato nel 1973, quando col suo Derby County si dovette arrendere alla Juventus.
“Noi non ci arrendemmo alla Juventus, ci arrendemmo all’arbitro! Quella semifinale andata in quel modo (la Juventus vinse 3-1 a Torino mentre al ritorno finì 0-0, ndr), con quell’arbitraggio, non mi è mai andata giù. Fu uno scandalo: il direttore di gara condizionò quella partita a favore degli italiani. Ma ai loro giornalisti gliele cantai, non mi feci problemi a dirgli che non parlavo con dei maledetti truffatori!”
Si è mai confrontato con i suoi dirigenti per prendere delle decisioni importanti?
“I dirigenti? Ma stiamo scherzando? Purtroppo nel calcio qualsiasi imbecille può improvvisarsi dirigente anche se non ha mai dato un calcio a un pallone”.
Nemmeno con i presidenti?
“Loro spesso sono peggio degli hooligans. Lasciai il Derby County perché il presidente, Sam Longson, era geloso di me: sosteneva che la squadra l’avesse costruita lui, non io. E poi voleva prendere uno di quei fottutissimi posti dentro la Federazione e temeva che le mie azioni potessero essere malviste e danneggiarlo. Ma sai a me cosa me ne fregava della Federazione…”.
E con i suoi calciatori?
“Coi giocatori ci devi parlare perché vanno motivati. Ecco, si: una bella chiacchierata di venti minuti poteva essere sufficiente per far capire che io avevo ragione. Del resto io sono stato un allenatore professionista e non vedo perché avrei dovuto accettare le idee di un ragazzo solo perché guadagnava tanti soldi”.
Forse è per questo che non ha mai avuto grandi amici nel mondo del calcio…
“Chi ne ha sul lavoro?”
C’è un giocatore verso il quale ha nutrito un’ammirazione particolare?
“Ai tempi del Nottingham Forest potevo contare su John Robertson: era un artista, il Picasso del calcio. Nei momenti di difficoltà bastava dare la palla a lui per risolvere i problemi. Ci ha fatto vincere due Coppe dei Campioni”.
E verso gli allenatori? Qualcuno ha paragonato il suo modo di porsi a Mourinho.
“Ma chi, il portoghese che pensa a vestirsi bene? Ma no, per favore. A me piaceva Sven Goran Eriksson perchè parlava l’inglese meglio dei calciatori”.
Se dovesse stilare un’ipotetica classifica dei migliori allenatori di sempre, dove si collocherebbe?
“Non direi di essere il migliore ma sono sicuramente nella top one”.
Cosa mi dice di Peter Taylor (il suo storico assistente, ndr)?
“Non credo che ci voglia un genio per capire chi sia stato Peter. Se immagini una moneta, io ero testa e lui croce; se pensi a un disco, lui era il lato B; se guardi la luna, lui era la parte nascosta. Avevo bisogno di lui e credo anche i giocatori che allenavo”.
Come vorrebbe essere ricordato?
“Ah, che domanda del cavolo! Non amo gli epitaffi, la retorica post mortem e tutte quelle smancerie ipocrite. Ho dato il mio contributo, questo mi piacerebbe che la gente dicesse. E spero che a qualcuno possa essere piaciuto”.